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Tutto attorno a Firenze: uno sguardo alla cucina di Lorenzo

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L'uomo raffinato e colto deve avere anche il palato educato. Lorenzo de' Medici era un grande amante della cucina, dai gusti assai esigenti, ma anche figlio della schiettezza toscana.  Come era prassi per quel periodo, nelle pratiche di cucina si tendeva ad utilizzare sapori decisi durante la preparazione delle vivande: pensiamo al profluvio di spezie ed ai sapori agrodolci piuttosto forti, alle salse ed agli intingoli, ai pasticci in crosta, all'onnipresente agresto almeno fino al primo Rinascimento; pensiamo al flusso ininterrotto di zucchero che accompagnava praticamente qualsiasi pietanza e veniva utilizzato anche per imbellire le tavole dei banchetti signorili con sontuose opere, composizioni artistiche che impreziosivano, teatralmente; pensiamo al must per eccellenza, la carne, arrosti e selvaggina sopra di tutti. Alcuni esempi, ma ne potrei portare altri. Le forme della convivialità nell'epoca rinascimentale erano all'insegna del fasto più assoluto, non solo

Oltre la Roma imperiale: il garum tra Longobardi e Franchi

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Molti Autori si soffermano sovente, Flandrin e Montanari in primis, i massimi studiosi della storia della gastronomia mondiale, sul concetto di come le tradizioni gastronomiche, quindi le pratiche di cucina con annesse le "preparazioni", si siano sempre modulate attraverso intrecci culturali tra popolazioni durante il susseguirsi dei secoli. Per arrivare al succo della questione: la "tradizione" si sposa quasi sempre con lo "scambio", nella misura in cui, per esempio, una determinata ricetta, assieme alla modalità - strutturata - per realizzarla (la "tradizione"), può incontrare altre e diverse culture che la possono adattare al proprio modo di concepire il cibo, al "vissuto" specifico (lo "scambio"). E se poi un piatto o una salsa, come nel caso che vado a trattare, è totalmente assunto a simbolo distintivo di una cultura, di una società, come il garum romano, vale il motto: "le vecchie abitudini son dure a morire".

La Maremma e l'acquacotta, tra romanzo e leggenda

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"L'acquacotta non è solo la zuppa più famosa della cucina grossetana, è l'eroina di un romanzo, di un'età leggendaria, di un'avventura scandita dal galoppo dei cavalli. Ed evoca, in un flash, la Maremma dei Fattori, del Fucini, la Maremma dei butteri, degli armenti, dei paduli e, diciamolo, della "mal'aria", una terra inospitale dove gli uomini morivano con le mosche. L'avventura è bella quando ne parliamo un secolo dopo, seduti a tavola, quando il romanzo acquista i tratti definitivi di un affresco sociale, a tinte vigorose. Oggi la Maremma è un bacino di fertilità e Grosseto vanta alberghi di lusso, ma Paolo Bellucci, nel libro "I Lorena in tavola", riporta che nel '700, d'estate, Grosseto aveva appena 40 abitanti. E Mara Cini, nel libretto "Maremma cucina", avverte che l'acquacotta conserva il nome antico di quando era fatta di sola acqua, pane e qualche verdura.  "Chi lavorava in campagna si portava dietro

CARCIOFI RIPIENI

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    "'Nnamo co' li scarciofoliiiiiiiii!!!!" Quando ero piccola, casa di mia mamma era  a metà strada tra due mercatini rionali, uno su Viale Odescalchi, verso le mie scuole dall'asilo alle medie, e l'altro dall'altra parte, a Piazza dei Navigatori, verso la Cristoforo Colombo. C'era di tutto, dai giocattoli ai casalinghi, passando ovviamente per tutto quello che di commestibile si può trovare in un mercato. Entrambi risuonavano forte delle grida cantilenanti dei venditori, ormai conosciuti da me e da mamma e, a nostra volta, conosciute da loro: il Velletrano, la Sòra Giulia, Ernesto de Montelibretti... ma quello che, su Viale Odescalchi, potevi sentire da un capo all'altro del mercato reclamizzare, secondo le stagioni, le sue verdure al di sopra di tutta la confusione che facevano gli altri in coro, era Franco lo Strillone: il mercato di Viale Odescalchi si trovava al centro, appunto, di un viale alberato, ed era formato da una doppia fila di banch

La "Regola", le "Consuetudini" di Ulrico di Zell. L'alimentazione monastica, i suoi simboli

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La ferrea Regola benedettina prevedeva, come piatto principale del desinare quotidiano dei monaci, i pulmentaria , pietanze cotte a base di ortaggi e legumi. A livello etimologico il termine è legato alla parola puls , polenta, ed alle volte queste preparazioni potevano riferirsi anche a vivande leggermente più complesse: la base, esclusivamente vegetariana poiché il consumo carneo era proibito e permesso esclusivamente in certi contesti, poteva imbellirsi con delle uova, del formaggio, del lardo, sempre però seguendo le indicazioni della Regola e   ciò che essa permetteva di consumare, dipendentemente dai periodi. Se consideriamo l'ambito extra-monastico, i pulmenta  erano costituiti sovente da un mix di carne, quasi sempre salata, accompagnata da legumi, come spesso ci indicano i manuali di cucina giunti fino a noi. Ai pulmentaria , cotti in umido, alle volte si affiancavano vivande di altro tipo, come i mitici fladones , torte di pasta probabilmente all'uovo, farciti con mol

Cristoforo Messisbugo ed i banchetti alla corte estense - Terza parte

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Ferrara, 24 gennaio 1529. Una domenica. Cristoforo Messisbugo, cuoco alla corte estense, ha organizzato la sua sontuosa "cena di carne e di pesce": Ercole II d'Este, futuro erede del ducato, vuole festeggiare il padre Alfonso I, Duca di Ferrara e vedevo di Lucrezia Borgia, la Marchesa di Mantova Isabella d'Este Gonzaga e Renata, Duchessa di Chartres, figlia del re di Francia Luigi XII, andata in sposa allo stesso Ercole l'estate precedente a Parigi. Il banchetto è l'evento conclusivo dei festeggiamenti per gli sposi. 104 invitati, tra cui un ambasciatore di Carlo V, il vescovo di Milano, rappresentanti del Senato di Venezia, gentildonne e gentiluomini vari. Sala grande del palazzo, addobbata per ogni dove con tendaggi colorati e sgargianti. Dopo una serie ininterrotta di 6 "imbandigioni", dove vengono servite ogni sorta di vivande accompagnate dall'intrattenimento di numerosi attori, cantanti e musicisti, ai 104 ospiti sono servite ben 2000 ostri

Cristoforo Messisbugo ed i banchetti alla corte estense - Seconda parte

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Ferrara, 24 gennaio 1529. Una domenica. Cristoforo Messisbugo, cuoco alla corte estense, ha organizzato la sua sontuosa "cena di carne e di pesce": Ercole II d'Este, futuro erede del ducato, vuole festeggiare il padre Alfonso I, Duca di Ferrara e vedevo di Lucrezia Borgia, la Marchesa di Mantova Isabella d'Este Gonzaga e Renata, Duchessa di Chartres, figlia del re di Francia Luigi XII, andata in sposa allo stesso Ercole l'estate precedente a Parigi. Il banchetto è l'evento conclusivo dei festeggiamenti. 104 invitati, tra cui un ambasciatore di Carlo V, il vescovo di Milano, rappresentanti del Senato di Venezia, gentildonne e gentiluomini vari. Sala grande del palazzo, addobbata per ogni dove con tendaggi colorati e sgargianti. Si parte con gli assaggi di benvenuto, disposti in 104 piattelli e 25 piatti più grandi: 1) Insalata in pastello di capperi 2) Tartufi ed uva passa 3) Insalata di indivia 4) Cime di radicchi 5) Raperonzoli e cedri 6) Insalata di acciughe

Cristoforo Messisbugo ed i banchetti alla corte estense - Prima parte

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Ferrara, 24 gennaio 1529. Una domenica. Cristoforo Messisbugo, cuoco alla corte estense, ha organizzato la sua sontuosa "cena di carne e di pesce": Ercole II d'Este, futuro erede del ducato, vuole festeggiare il padre Alfonso I, Duca di Ferrara e vedevo di Lucrezia Borgia, la Marchesa di Mantova Isabella d'Este Gonzaga e Renata, Duchessa di Chartres, figlia del re di Francia Luigi XII, andata in sposa allo stesso Ercole l'estate precedente a Parigi. Il banchetto è l'evento conclusivo dei festeggiamenti per gli sposi. 104 invitati, tra cui un ambasciatore di Carlo V, il vescovo di Milano, rappresentanti del Senato di Venezia, gentildonne e gentiluomini vari. Sala grande del palazzo, addobbata per ogni dove con tendaggi colorati e sgargianti. Prima del pasto si parte con una commedia di Ariosto (presente il suddetto), la 'Cassaria", segue un intrattenimento "con musiche e diversi ragionamenti" nelle due sale attigue. Sala principale in prepara

Oltre il cibo: i banchetti ed i simposi nella cultura etrusca

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Dallo studio delle numerose raffigurazioni pittoriche giunteci, riguardanti i banchetti cerimoniali, si desume quanto essi fossero pregni di significati sociali ed ideologici, non solo collegati all'aspetto gastronomico. Allargando il concetto di deipnos , da banchetti per la mera consumazione del cibo, si passa a dei veri e propri simposi, dove si proponevano argomenti di interesse comune; si tracannava il vino, allietandosi con la presenza di musici e danzatori. Ma abbiamo a disposizione letture maggiormente descrittive. Nelle lastre architettoniche con scena di banchetto che decoravano il palazzo di Poggio Civitate-Murlo (Siena, 575-550 a.C.), al disotto dei letti tricliniari con coppie di banchettanti rappresentati nell'atto di brindare e di ascoltare musica, sono collocate delle trapezae imbandite con piatti e ciotole. Una più attenta e specifica analisi visiva delle suddette scene di banchetti ci porta a dedurre il consumo di probabili frutti, uova o piccole focaccine, in

La pesca nella cultura etrusca

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Anche per quanto concerne l'attività della pesca ci sono giunte informazioni documentali esaustive, di un certo peso, che testimoniano come questa pratica fosse assai strutturata e rilevante tra il popolo etrusco. Anche la raccolta di molluschi, come patelle, mitili e cappe regine, soddisfava l'alimentazione della popolazione dell'Etruria.  Presso il Monte Argentario e Populonia, come esplicitato nel De natura animalium di Eliano, era piuttosto frequente la pesca del tonno, in maniera assai marcata in alcuni villaggi, o di pesci di taglia simile come l' aulopias ; ed ecco che ci arrivano in aiuto anche le numerose raffigurazioni di varie specie ittiche del Tirreno centrale, presso i vari agglomerati urbani, databili soprattutto ai secoli IV e III a.C., ed anche i resti archeologici, con i numerosi frammenti di utensili adoperati per la pesca, come aghi di bronzo, ami, pesi per le reti e fiocine. Piuttosto interessanti sono i ritrovamenti di resti di pesci negli scavi p

Alimentazione carnea, caccia ed allevamento in epoca etrusca

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Ad un discreto utilizzo di legumi, nell'alimentazione etrusca, andavano di pari passo caccia ed allevamento, assai strutturate nello stile di vita del tempo. E nuovamente, testimonianze archeologiche e documentazioni scritte ci testimoniano usi e costumi della società e del regime alimentare adottato.  Il maiale, come ci suggeriscono varie fonti, era al centro del tutto e capillarmente allevato, con una destinazione esclusivamente alimentare rispetto a ovini e bovini, anch'essi molto presenti tra il popolo etrusco: boschi e querceti ricchi di ghiande, assai diffusi nell'Etruria del periodo, assieme alle condizioni climatiche specifiche, favorivano grandemente la stanzialità di questo animale nella regione. Lana, latte e formaggi erano a disposizione grazie all'allevamento di ovini e caprini, particolarmente presenti nelle zone territoriali odierne di Pisa e Cerveteri (Licofrone, Alexan . X, 4, 7-8   e Plinio, Epist. VIII, 20). Come già specificato in un post precedente,

L'alimentazione etrusca - Tra fonti scritte e ricerca archeologica

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Soprattutto nella parte meridionale dell'Etruria le colture di vite e olivo avevano un peso assai cospicuo per quanto concerneva la commercializzazione verso altri centri, mentre gran parte dell'alimentazione degli abitanti dei villaggi si concentrava su altro.  Alcuni spunti. Nel famoso relitto del Giglio Campese, databile intorno al 600 A.C., furono trovate delle olive conservate in salamoia all'interno di alcune anfore etrusche, mentre nella Tomba delle Olive di Cerveteri (575-550 A.C.) furono scoperti dei noccioli del verde frutto, presumibilmente utilizzati come offerta di cibo al defunto; lo stesso Catone, nel Liber de agri cultura del 160 A.C, ci testimonia come le olive fossero concesse come pasto agli schiavi in dosi assai cospicue. La centralità della coltivazione dell'olivo e della vite la si desume anche dalla saga di Arrunte da Chiusi, il quale avrebbe invogliato i Galli a scendere nelle zone mediterranee mostrando loro i prodotti che la terra dell'a

L'alimentazione etrusca - I cereali

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Lo stesso seme può rendere in un posto dieci volte; in un altro, come in alcune zone dell'Etruria, fino a quindici volte.  Marco Terenzio Varrone, De re rustica . Numerosi documenti testimoniano l'estrema fertilità del territorio dell'Etruria rispetto al resto dell'Italia antica; l'agricoltura etrusca aveva il pregio di realizzare modalità di produzione assai avanzate, che potevano generare quantità e qualità elevate dei prodotti alimentari. Nel celebre trattato agronomico De re rustica di Marco Terenzio Varrone si delinea una regione geografica all'apice per quanto concerne l'uso delle tecniche di produzione cerealicola; nonostante i colpi subiti dalla conquista romana le città etrusche offrivano ancora un'ampia varietà di prodotti alimentari: il frumentum era al centro del tutto.  L'estesa diffusione della tecnica del maggese consentiva agli Etruschi di assicurare alta produttività ai campi: la continua rotazione biennale delle colture

Cluny: il rigore tra orto e cucina

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L'ordine cluniacense è stato uno dei più ricchi della storia, anche se cercava di ispirarsi ad un modello assai povero di alimentazione. Oltre alla ritualità gestuale "culinaria", che doveva sostituire in toto la parola seguendo la Regola di Benedetto, altri momenti solenni e carichi di significato erano quelli relativi alle attività dell'orto.  Metà XI secolo, Ulrico di Zell, nelle sue Consuetudines Cluniacenses, ci informa di ciò, circa la raccolta, pulitura e cottura delle fave, centralissime nell'alimentazione monastica e contadina del tempo: i "settimanari di cucina", monaci che si alternavano periodicamente in turni, dovevano raccogliere le fave nel mentre che suonava la campana dei Vespri; finita la liturgia lavarle tre volte sotto l'acqua corrente e lasciarle in ammollo una notte all'interno di un recipiente ben chiuso.  La mattina dopo dovevano risciacquarle nuovamente tre volte e quindi porre il "caldarium" sul fuoco di cucina

Tra euforia ed evasione: caffè e tè tra XVII e XVIII secolo. Seconda parte

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La fortuna della nuova attrazione, il caffè, fu assai contrastata fra Olanda ed Inghilterra. Situazione che si contrapponeva al mood di mezza Europa: durante il XVIII secolo era possibile imbattersi nei numerosi locali alla moda per la degustazione della scura bevanda.  Un primo carico di tè, proveniente direttamente dall'India, giunse intorno alla prima decade del 1600 ad Amsterdam; nel 1635 abbiamo le prime tracce in Francia e solo dopo la metà del secolo lo troviamo in Inghilterra, grazie agli olandesi. In Olanda il tè era già diventato una bevanda di massa: inebriante quanto la birra, quest'ultima subì una brusca frenata per quanto concerne i consumi, scalzata dalla nuova arrivata. Si ritiene essere veritiera una massimale assunzione di tè fino a 100 tazze al giorno. Ed ecco nuovamente palesarsi l'arte medica che giustifica l'eccesso, tanto che era naturale "elargirne 50 unità agli ammalati in 24 ore": "Si dia tè a tutti i popoli della Terra, ad ogni

Tra euforia ed evasione: caffè e tè tra XVII e XVIII secolo. Prima parte

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Vino e birra. Per molti secoli furono al centro dei consumi alimentari di intere popolazioni europee.  Per sommi capi si possono localizzare all'interno di due aree geografiche: la birra nella parte centrale e settentrionale del continente ed il vino nella zona sud e costiera. Il consumo pro capite di vino, intorno all'anno Mille, trasversalmente fra regioni e classi sociali, si attestava mediamente attorno ai tre litri; questo aspetto si evidenzia in particolar modo nel 1500, quando, con l'utilizzo di molti cibi conservati sotto sale, assai comuni fra le classi sociali più povere, il senso della sete era assai marcato; il vino costituiva una sorta di alimento a sé stante, apporto calorico sostanzioso, quando la tipologia di dieta era monotona o povera.   "Alcuni vivono questa bevanda più che del cibo vero e proprio; tutti ne hanno bisogno, uomini, donne, vecchi, sani e malati". J. Brettschneider, 1551. Al consumo di vino erano anche attribuite delle peculiarità t

La fame contadina in Europa tra '500 e '600: cittadini versus campagne

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Cibo, al centro dei conflitti, la ferocia borghese. 1573, Troyes. Si racconta di come, in maniera assai repentina, la città si riempì di poveri e diseredati, affamati, provenienti dalle campagne circostanti, marea umana che rappresentava un problema di non poco conto per la città in termini di sicurezza. Le autorità cittadine organizzarono una frettolosa assemblea per capire come porre rimedio alla questione: si decise di cuocere, in vari forni sparsi per la città, diversi chili di pane, in fretta e furia, da distribuire agli affamati assieme ad una moneta d'argento.   "I poveri furono tutti ammassati nelle vicinanze di una delle porte cittadine, ricevettero ciò che chiedevano. Uscito l'ultimo disgraziato, fu urlato loro, dall'alto delle mura, di andarsene con Dio per cercare altrove di che vivere, senza mai più farsi vedere".   Questo espisodio, neppure tanto violento, è testimone della grave crisi alimentare manifestatasi in molte parti d'Europa tra le fasce

Il colore del pane ed i "pulmenta": breve excursus nell'Alto Medioevo

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Nel mondo romano il frumento assunse un ruolo da protagonista, era a tutti gli effetti considerato un elemento per sfarinati di pregio, ampiamente diffuso. Con l'avvento della crisi del III secolo nell'Impero, si realizzarono alcuni cambiamenti piuttosto evidenti anche nella tipologia di alimentazione. Ristagnando le tecniche agronomiche ed essendo il frumento un bene che richiedeva smisurate attenzioni con, in proporzione, una resa assai modesta, si diffuse l'utilizzo di cereali che potevano garantire produzioni e adattabilità territoriali maggiori: miglio, spelta, sorgo, panìco, segale, orzo e avena. Per alcuni, conosciuti già da secoli, come la segale, si realizzò un processo di "rilettura antropologica" da parte delle popolazioni, da accezione totalmente negativa ad assimilazione culturale: utilizzata grandemente per la nutrizione animale nei tempi precedenti e nominata dai latini "mala erba", cominciò ad essere lavorata per la panificazione. Con una

La ritualità gestuale cluniacense nel Medioevo: silenzio, preghiera e cibo

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La Regola di Benedetto prescriveva che fosse posta continuità assoluta alla regola del silenzio, anche nel refettorio, cioè teoricamente nel luogo naturale deputato alla parola stessa, di modo che la rinuncia al dialogo fosse assunta a concetto meritorio massimale. Quindi tacere anche di fronte al cibo, al momento del pasto, distrarsi da esso per non incorrere nella tentazione di viverlo come un piacere anziché come una semplice necessità del corpo, intercalandolo unicamente con letture di testi edificanti, anche ad alta voce (sommessa): unica concessione permessa.   Il cibo materiale che per mere necessità fisiologiche viene introdotto in corpo nulla è rispetto al cibo spirituale elargito dalle Sacre Scritture. Ma la comunicazione verbale, sonora, non rappresenta l'unica possibilità di contatto interpersonale. Facciamo un salto indietro nel tempo, all'inizio del Basso Medioevo, Francia, monastero di Cluny.   I monaci cluniacensi si inventarono una serie di strategie e stratage

La magica forchetta del geniale signor Bartolomeo Scappi

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Quanto diamo per scontato l'utilizzo di certi utensili di cucina, oggi? Per la forchetta verrebbe da dire: è così ovvia come ovvio è 1+1=2, è ovvia come il sangue che scorre nelle vene o come il Sole di giorno e la Luna di notte. Eppure, rispetto ai colleghi coltello e cucchiaio, è stata assimilata antropologicamente dalla nostra società assai recentemente, trascinandosi fra numerosi alti e bassi durante i secoli in differenti aree geografiche mondiali. La storia ci porta molto indietro nel tempo: per le classi agiate di epoca greca e romana era assai funzionale adoperare dei ditali, assieme ad altri utensili simili a forchette, come testimoniano numerosi ritrovamenti archeologici. Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente questo strumento sparì, le culture "barbariche" ne decretarono la morte, mentre invece nell'Impero d'Oriente continuò ad essere protagonista. Venezia 1004. Fonti storiche ci suggeriscono la presenza del "piron" tra le mani d