Oltre la Roma imperiale: il garum tra Longobardi e Franchi

Molti Autori si soffermano sovente, Flandrin e Montanari in primis, i massimi studiosi della storia della gastronomia mondiale, sul concetto di come le tradizioni gastronomiche, quindi le pratiche di cucina con annesse le "preparazioni", si siano sempre modulate attraverso intrecci culturali tra popolazioni durante il susseguirsi dei secoli.

Per arrivare al succo della questione: la "tradizione" si sposa quasi sempre con lo "scambio", nella misura in cui, per esempio, una determinata ricetta, assieme alla modalità - strutturata - per realizzarla (la "tradizione"), può incontrare altre e diverse culture che la possono adattare al proprio modo di concepire il cibo, al "vissuto" specifico (lo "scambio"). E se poi un piatto o una salsa, come nel caso che vado a trattare, è totalmente assunto a simbolo distintivo di una cultura, di una società, come il garum romano, vale il motto: "le vecchie abitudini son dure a morire".

Il garum, in epoca greco-romana, era un salsa a base di interiora di pesce, macerate nel sale con l'aggiunta di erbe e spezie varie, filtrata tramite una tela e successivamente impiegata per condire ogni sorta di vivanda. Comunissimo. Il sommo Apicio, nel suo "De re coquinaria", ricettario suddiviso in dieci libri dove l'autore ci presenta la tradizione romana in cucina, lo menziona più di venti volte, senza nemmeno descriverne con esattezza la preparazione, tanto era conosciuto ed utilizzato all'epoca.

Il garum, quindi, attecchì ampiamente nella pratiche di cucina della società romana, emblema di una grande cultura, un poco come sono oggi gli spaghetti al pomodoro per l'italianità, anch'essi, guarda caso, frutto di "scambi" con due mondi assai distanti: l'Oriente e l'America. Ma questa è un'altra storia.

10 maggio 715. Regno longobardo di Liutprando. Nel Capitolare, redatto nella capitale Pavia, si fissavano le modalità di esazione doganale, dazi e pedaggi cui erano tenute le navi comacchiesi quando risalivano la corrente del Po, cariche di merci. Ai Comacchiesi, al tempo sudditi dell'Impero bizantino, veniva concessa la possibilità di praticare il proprio negotium secondo alcune modalità derivanti da precedenti accordi stipulati con la parte longobarda. Il Capitolare è documento molto importante, poiché dimostra come fossero vitali i traffici commerciali della valle padana sotto Liutprando. I milites comacchiesi risalivano quindi il nostro fiume incontrando lungo la strada diversi posti di esazione, con annesse operazioni di riscossione della merce.

Ed ecco il sale, prezioso come l'oro: la decima era da corrispondere in tutti gli scali del percorso; presente anche l'olio, nelle navi provenienti dalla costa. Sempre abbondante il pepe, la più consumata fra le spezie ed il nostro amato garum, sul quale è obbligatorio concentrare le nostre attenzioni.

Nell'Alto Medioevo, durante il VII secolo, la preparazione e l'utilizzo del garum continuava a destare l'interesse dei molti, come ci testimonia anche Isidoro di Siviglia: nello specifico ci informa che, definendolo liquor piscium salsus, esso veniva preparato "con ogni sorta di pesce". Allo stesso modo, tornando al nostro Capitolare di Liutprando, non ci farà specie sapere che, un secolo dopo, il re longobardo desiderasse riceverne in gran quantità, poiché diffusamente utilizzato nelle pratiche di cucina del tempo. Anche i monaci genovesi del IX secolo ne erano ghiotti, gli inventari bobbiesi ci testimoniano acquisti annuali di due congi di garum (ad opus fratrum). Da sottolineare il fatto che, essendo sia Genova che Comacchio località di mare assai attive in quei secoli, la nostra amata salsa di pesce aveva probabilmente un alto appeal anche in altre zone geografiche molto distanti.

Testimonianze di peso anche nel continente europeo: Chilperico II, re dei Franchi ad inizio VIII secolo, ne fa avere annualmente circa 30 moggi all'abbazia di Corbie, mentre Carlo Magno, nel Capitulare de villis, documento amministrativo emanato per regolamentare le attività agricole, rurali e commerciali delle aziende agricole dell'Impero, enumera il garum fra i prodotti che devono essere preparati cum summo nitore; abbiamo a disposizione anche una fonte documentale tedesca del IX secolo che ci suggerisce una preparazione particolare, con alloro, fienogreco, menta, salvia e anice, il tutto "fatto cuocere e passato, conservato in vasi ben chiusi".

Non dilungandomi ulteriormente nell'analizzare altre fonti che testimoniano la presenza del garum nell'Alto Medioevo, l'accento va posto, a mio avviso, su un dato che credo essere assai stimolante: se sono giunti a noi numerosi documenti di varia natura, dove in alcuni di essi si specifica chiaramente che "la salsa viene prodotta in loco", è evidente come il garum, questa realtà socio-gastronomica fortemente identitaria della romanità ("la tradizione"), si sia successivamente confrontato, attecchendo grandemente, con gli usi e i costumi - e quindi le pratiche di cucina -  di popolazioni vissute diversi secoli dopo, adattandosi anche alle esigenze del presente ("lo scambio").

Le vecchie abitudini sono dure a morire...

Anfore di garum





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