Anni Trenta: tra autarchia alimentare e "cucina del senza"

Quando Vittorio Emanuele era re bevevamo il caffè; lo fecero imperatore d'Etiopia e ci rimase solo l'odore; lo fecero re d'Albania ed anche l'odore andò via.

Questa celebre filastrocca, ironica e sarcastica, richiama alla memoria quel periodo di crisi e di razionamenti alimentari che interessò gli anni Trenta del XX secolo, dove una marcata spinta autarchica alimentare, istituzionalmente programmata, costrinse la popolazione italiana al consumo dei soli prodotti di origine nazionale.

Il punto di partenza lo si deve ricercare in un preciso fatto storico. Nel 1935 la Società delle Nazioni inflisse all'Italia alcune dure sanzioni economiche come conseguenza dell'aggressione perpetrata ai danni dell'Etiopia. La reazione del regime fascista, nemmeno tanto scontata, fu quella di incanalarsi in una feroce politica economica di stampo autarchico, incrementata dai fatti della Guerra di Spagna, dove l'Italia fiancheggiava il governo franchista, per collegarsi naturalmente, amalgamandosi, alle norme economiche sancite in vista dell'imminente entrata in guerra. 

Date le circostanze, non certo favorevoli ad una sorta di "agilità alimentare", il 1939 fu l'anno dell'entrata in vigore della tessera annonaria. Gli italiani fecero la conoscenza di questo documento a bollini che permetteva il razionamento di generi alimentari di estrema necessità, come pane, zucchero, carne, pasta e svariate tipologie di grassi. Ciò rientrava in quel concetto di autarchia alimentare, indipendenza, che il regime fascista si era imposto, punto fermo nell'azione di governo. Il gioco era semplice: ritenendo gli italiani assolutamente capaci di autoregolarsi ed essere economicamente indipendenti dalle altre nazioni europee, si poteva strutturare con facilità un percorso ben definito, nazionalista.

In questo contesto alcuni generi come il riso ed il grano coltivati in Italia subirono un forte incremento nella produzione a causa di una vertiginosa domanda; è noto come durante la cosiddetta Battaglia del Grano, ideata dal regime nel 1925, si passò, grazie alle iniziative di genetisti italiani come Strampelli, da una produzione di frumento di 44 milioni di quintali del 1922 ad un culmine di ben 80 milioni del 1933, addirittura senza dover incrementare la superficie da coltivare.

Alcune specificità, come zucchero e caffè, furono sostanzialmente bandite dalle tavole italiane, mentre, in maniera coeva e per fronteggiare la crisi, la realizzazione dei cosiddetti orti di guerra garantiva una certa aderenza a questo nuovo stile di vita: semplici aiuole e giardini urbani adibiti alla coltivazione di verdure ed alle volte di frumento. Se da un lato queste iniziative contribuirono certamente ad instillare nella mente degli italiani un certo senso di appartenenza - indispensabile in ogni guerra almeno finché perdura il patriottismo - dall'altro lato, sul versante meramente nutrizionale, l'autarchia fece sorgere alcuni problemi non di poco conto, collegati al monofagismo, cioè all'alimentazione incentrata sostanzialmente sul consumo di un singolo alimento. Essendo praticamente assente la carne dalle cucine italiane, si pensò bene di creare un vero e proprio piatto autarchico, una sorta di minestra brodosa a base di legumi e di verdure, impreziosita da grassi come strutto e lardo (olio e sale, essendo razionati, erano particolarmente costosi).  

Anche da un punto di vista delle pubblicazioni il Governo metteva a disposizione una serie di opuscoli con delle ricette dal titolo assai eloquente: il super brodo di guerra, le polpette senza carne, le uova della Patria e, ovviamente, l'immancabile Balilla al cioccolato.

Sin dai primi anni Trenta l'Ufficio Propaganda del Partito Nazionale Fascista dette alle stampe un inserto dal titolo Sapersi nutrire, ausilio didattico e compendio funzionale alla buona gestione delle situazioni familiari. Con l'utilizzo di caratteri cubitali ed una grafica assai austera si proponeva alla brava massaia di casa una serie organica di ricette autarchiche, pronte a rispondere alle più svariate esigenze. Gli avanzi erano indicati come dei veri e propri ingredienti, se non addirittura considerati come protagonisti del piatto. La parola Risparmio! la faceva da padrone nelle varie pagine dell'opuscolo, il quale doveva stuzzicare l'invettiva del lettore o della lettrice, pronti ad imbandire "un pasto per sei persone", chiaro segno che la famiglia dell'epoca era assai più numerosa di quella attuale. E' interessante sottolineare come in questo opuscolo si tendesse a "irrobustire" le ricette rendendole, se possibile, più grasse e presenti di gusto, sempre però nel quadro di una lettura autarchica del cucinare. 

Talvolta non mancavano alcune varianti assai strambe delle preparazioni proposte, figlie del doversi arrangiare per forza e decisamente poco comprensibili in un'ottica contemporanea: per fare un brodo, ad esempio, l'estratto di carne - o il dado se andava bene - poteva essere agilmente sostituito con alcuni cucchiai di latte. Ed ecco anche la panada veneta, una sorta di minestra di pangrattato bollito in un "finto brodo", oppure un'altra autentica prelibatezza bianchiccia per 6 persone, preparata con tre bianchi d'uovo montati e del formaggio d'avanzo, il tutto da far bollire, a cucchiaiate, nel brodo acquoso. Nemmeno i grumi rimasti nel fondo di cottura delle carni arrosto venivano scartati, potevano servire come insaporitori del brodo vegetale o come condimento per riso e pastasciutta. Se poi ci volevamo consolare e tirare un pochino su di morale si poteva imbellire la tavola con qualche biscottino di pasta reale: mandorle, miele, fecola e... acqua!







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