Domenico Cresti, Convito per le nozze di Cosimo I de’ Medici e Eleonora da Toledo, 1539, Vienna,
Kunsthistoriches Museum. Cosimo I, figlio di Giovanni delle Bande nere e di Maria Salviati, fu
il secondo ed ultimo Duca nella breve storia del Ducato di Firenze, dal 1537 al 1569 e, col
Granducato di Toscana, il primo Granduca dal 1569 fino alla morte. Eleonora di Toledo fu la sua
prima moglie.
In epoca rinascimentale il cibo e tutto ciò che ruotava attorno ad esso (gli splendidi banchetti, gli
allestimenti, il cerimoniale, i mestieri della cucina, quindi non solo i contenuti ma anche le forme
attraverso le quali il convivio si realizzava) venivano intesi come fattori di massimale relazione
sociale, andando a delineare e definire i rapporti fra persone. Sfarzo ed ostentazione erano i
pilastri sopra i quali si edificava letteralmente il senso stesso di società cortigiana, conferendo al
banchetto una sua particolare rilevanza politica. Questi aspetti sono messi in risalto dalla
pregnante trattatistica coeva, assai specializzata, che ci ha permesso di conoscere dettagliatamente
gli stili di vita cortigiani del tempo.
Ma come siamo arrivati a questa sorta di glorificazione del bello? Necessita riavvolgere il nastro, diacronicamente, e andare a
sondare molto velocemente la trattatistica dei secoli precedenti, comprendere le contestualità che
permisero il graduale realizzarsi di un senso nuovo del gusto, rinascente, che si sarebbe a sua
volta strutturato sul poderoso giro di volta culturale rappresentato dall’Umanesimo.
Marco Gavio Apicio, De re coquinaria, I secolo, manoscritto di S. Gryphium, Lione, 1541. Liber de coquina, metà XIII secolo.
Il De re coquinaria è una raccolta di ricette dell’antichità romana compilata nel I secolo dal gastronomo Marco Gavio Apicio. Il Liber de coquina comprende una serie di manoscritti che costituiscono il più antico ricettario di
epoca cristiana, realizzato in ambito svevo, in Sicilia, con Federico II e poco dopo, alla metà del 1200.
Quest’ultimo raccoglie, integrandole nel costume gastronomico dell’Italia geografica del tempo,
le prassi culinarie e dietetiche arabe già presenti sul territorio dal X secolo. L’intervallo di tempo che intercorre
tra la realizzazione del De re coquinaria e del Liber de coquina è molto ampio. Un millennio nel
quale l'uomo non sentì la necessità di compilare un ricettario inteso in senso stretto. Oggi conosciamo le abitudini alimentari dell’Alto Medioevo sostanzialmente tramite lo studio di fonti indirette, come
epistole, trattati agronomici e dietetici. E in aiuto ci vengono anche altre contestualità come i
capitolari. Pensiamo al celebre Capitulare de villis (Decreto sulle ville) di epoca carolingia (fine
VIII secolo), emanato per disciplinare le attività rurali, agricole e commerciali delle aziende
agricole dell'Impero.
In epoca altomedievale la carne rappresentava il fulcro dell'alimentazione cortigiana. Veniva consumata in grande quantità, di
animali di grossa taglia, assieme alle preparazioni collegate, alternando i periodi di magro con il
pesce. Dal IV secolo in poi, infatti, i cristiani furono tenuti ad osservare la rigida divisione
dell'anno in periodi di grasso e in altri di magro (di questi circa un terzo dell’anno), ovvero in
lassi di tempo in cui era lecito consumare la carne e altri in cui non lo era.
Il nobile dell’Alto Medioevo era principalmente un guerriero e doveva dimostrare la propria
onorabilità, la legittimità del governare e potenza riuscendo ad ingurgitare grosse quantità di cibo.
Carlo Magno non a caso morì di gotta. «Non può regnare su di noi chi si accontenta di un pasto
modesto!» Liutprando da Cremona ci riferisce che Guido di Spoleto nell’888 fu addirittura rifiutato come
re dei Franchi poiché eccessivamente morigerato nei pasti. La carne si ammantava quindi già in
questa epoca di una sua specifica valenza di status symbol che si trascinerà fino ai secoli
successivi anche se in forme differenti, relegando il consumo di verdura e legumi agli strati più
bassi della società. Allo stesso modo il pane bianco, dunque regale, era contrapposto al pane
scuro, realizzato con materiali inferiori come spelta, segale, panìco e miglio.
Bartolomeo Sacchi, De honesta vuluptate et valetudine, 1473. Melozzo da Forlì, Sisto IV nomina Bartolomeo Sacchi primo prefetto della Biblioteca Vaticana, 1477, Pinacoteca Vaticana.
Ecco giungere il cambio di volta culturale, epocale. L’Umanesimo fu promotore di una graduale
trasformazione paradigmatica. Adesso vediamo alcuni principi e nobili, mecenati, che si fanno promotori
di un rinnovato e vitale clima culturale, di ampio respiro, ospitando a corte letterati, filosofi ed
artisti di ogni sorta. Letterati che, nel proprio operato, si ispirano alle humanae litterae, agli
antichi classici greci e latini. L’uomo, rinato, prende a riferimento le teorie filosofiche
neoplatoniche, diventa il fulcro della speculazione, del ragionamento ed è il centro della ricerca
culturale, valorizza sé stesso ponendosi come vero protagonista e responsabile del proprio destino
e della propria vita, allontanandosi dagli stilemi ontologici culturali medievali (Scolastica). Il
signore di turno non è più un guerriero ma un fine cultore dell’arte politica e perno centrale delle
manifestazioni artistiche e mondane.
Una evoluzione che si tradusse, ovviamente, anche in un senso del gusto altro, nuovo, che
possiamo, in prima istanza, rintracciare nella fondamentalissima opera di Bartolomeo Sacchi, umanista e gastronomo, detto Il Plàtina. Il De honesta vuluptate et valetudine del 1473 delineò una estetica del cibo
adesso inteso come piacere misurato, salutare e fu il primo trattato dietetico in stampa della
storia. Sacchi venne nominato da
Papa Sisto IV primo direttore della Biblioteca Vaticana nel 1478. Il trattato del Sacchi, in latino, ingloba in realtà molte ricette del collega cuoco Maestro Martino da Como, materiale
contenuto nel suo Libro de arte coquinaria. Martino, ticinese, nato nell’allora Ducato di Milano,
grazie alla rilettura dietetica del testo platiniano, godrà di una strepitosa notorietà in tutta Europa,
concorrendo a spalancare le porte alla rinascenza in cucina ed al costume gastronomico italiano
che saranno ben presto presi a modello in tutte le corti europee.
Le casate italiane nel 1499.
Prima di andare ad elaborare una dettagliata analisi sul chi mangiava cosa e come presso le corti
rinascimentali, come erano allestiti i banchetti, la valenza sociale del convivio, i mestieri della
cucina e la pregnante trattatistica coeva è necessario esaminare velocemente la situazione politica
frammentata, l’economia e gli aspetti sociali del periodo rinascimentale. L'immagine riportata illustra la situazione geopolitica italiana del 1499, l'articolo tratta ovviamente di un periodo leggermente successivo. In un periodo molto complesso e turbolento, nell’Europa geografica si fecero sentire le
conseguenze delle interconnessioni ecologiche colombiane, scambi di vasta portata di animali,
piante, culture e idee tra il Vecchio e Nuovo Mondo e viceversa; i commerci si ampliarono verso
le rotte delle Indie orientali; si incrementò lo strapotere dell’imperatore Carlo V d’Asburgo; ecco
la Riforma di Lutero e la Controriforma (che irrigidì, normando, l’astinenza dalle carni); il libero
pensiero prese vita; vi era ancora la presenza islamica nel Mediterraneo e intorno a Vienna; ci fu
l’impiego su vasta scala delle artiglierie durante le continue lotte fra Stati europei, con il sovente
passaggio di truppe francesi, spagnole e tedesche nell’Italia geografica (le preparazioni dei banchetti
rinascimentali erano spesso denominate alla francese, alla spagnola, all’alemanna, alla
turchesca, ecc…).
In una situazione interna di estrema frammentazione politica, tra Ducati, Marchesati e
Repubbliche, la cucina, il convivio, il banchetto, rivestirono un ruolo centrale, politico, per
quanto concerneva le relazioni economiche e dinastiche tra le varie casate o vennero interpretati
come mezzi per ingraziarsi il consenso della Chiesa. Per i banchetti più magnificenti bisognerà, in primis,
attenzionare i d’Este a Ferrara, Modena e Reggio, i Gonzaga a Mantova e gli Sforza a Milano.
Schema dei quattro umori, in relazione ai quattro elementi ed ai quattro temperamenti.
Le norme dietetiche del tempo, già dal Medioevo, si rifacevano alla teoria
umorale ippocratico-galenica. Secondo la teoria di Ippocrate, ampliata successivamente da
Galeno e fatta propria dalla Scuola Medica Salernitana, ai quattro elementi cosmici, alle quattro
stagioni, alle quattro età dell’uomo, ai quattro punti cardinali corrispondevano i quattro umori
base (bile nera, bile gialla, flegma e sangue). Galeno allargò la teoria ippocratea sostenendo che l’eccesso di uno dei quattro umori poteva definire il temperamento (melanconico, collerico,
flemmatico e sanguigno), il carattere di una persona e la sua costituzione fisica, detta
complessione. Le varie tipologie di alimenti giocavano un ruolo centrale nel bilanciamento
umorale, avendo anch’esse specifiche caratteristiche (caldo, secco, freddo, umido). Contraria
contrariis sanantur, insomma. Postilla: i nostri contemporanei formaggio con le pere e melone col prosciutto nascono in quel contesto lì, gli estremi che, vicendevolmente, si bilanciano.
Ovviamente, nel Rinascimento ognuno doveva mangiare secondo le proprie inclinazioni, dove
per “inclinazioni” si intendevano non solo i dettami della dottrina ippocratico-galenica ma si
ravvisava anche una palese ferocia classista rispetto alle varie tipologie di pietanze, che erano
dei veri e propri status symbol.
Nel Rinascimento si affermò definitivamente la teoria della grande
catena dell’essere, dove ogni animale o vegetale veniva considerato più o meno nobile rispetto
alla sua collocazione piramidale, dipendentemente dalla sua vicinanza alla terra. Per esempio:
meno nobili erano considerati i bulbi sotterranei (cipolla, aglio e scalogno), le radici di alcune
piante erano situate appena sopra (rape e carote), le foglie di spinaci e cavolo, non a contatto con
il terreno, occupavano un gradino più alto, In cima stava la frutta, poiché allocata in alto, fra gli
alberi.
Insomma, ad ognuno il suo, una ferocia classista legata al cibo che si delinea anche nella celebre
storia del povero contadino montanaro Bertoldo in Bertoldo e Bertoldino di Giulio Cesare Croce.
Bertoldo venne adottato da un sovrano e nutrito suo malgrado con pietanze regali. Il povero
Bertoldo, abituato a rape e fagioli, cibi umili, si sentì male chiedendo più volte di essere
alimentato con vivande “a lui idonee”. Non ascoltato, il poveretto morì fra atroci sofferenze.
Sull’epitaffio della tomba di Bertoldo venne riportata la dicitura «chi è in uso alle rape non vada
ai pasticci.»
Dal Medioevo, nella cucina rinascimentale, fu mutuato l’uso di mix di spezie, anche se attenuato,
sulle carni. La spezia, prima della grande apertura delle rotte commerciali nel Seicento inoltrato,
era elemento raro, costoso e quindi consono al consumo cortigiano e utilizzata ovunque. Nuova
postilla: leviamoci dal capo ciò che narra la vulgata comune, cioè che il monumentale utilizzo di
spezie a corte fosse correlato alla poca salubrità delle pietanze carnee, che si dovessero nascondere ipotetici malsani effluvi indesiderati. Le carni erano molte, frollate e adeguatamente
salubri. La spezia veniva utilizzata semplicemente perché piaceva abbinarla in quel modo ed in
quelle quantità, si trattava proprio di un ben specifico senso del gusto. Ciò aveva anche una ragione dietetica, poiché, riprendendo la teoria umorale, era
considerata di stimolo per la cottura degli alimenti nello stomaco. Lo digestione era assimilata
ad un processo di cottura.
Nel Rinascimento il latte ed i latticini vennero rivalutati rispetto al Medioevo, materie grasse come il burro e i formaggi
cominciarono a trionfare sui deschi cortigiani. Onnipresente il biancomangiare, assai diverso da quello
contemporaneo e a base di carni bianche o mandorle, con ben 37 versione censite nelle fonti. La
carne più ricercata non era più l’animale di grossa taglia come nel Medioevo, ma spesso i volatili,
poiché, anch’essi, volando e stando in alto, erano più consoni al desco signorile (erano compresi
capponi, polli, anatre e selvaggina nobile). Ecco un profluvio di umidi, guazzetti ed una fioritura
straordinaria di paste tirate, farcite e carni di manzo e vitello, soprattutto per quanto concerneva
frattaglie ed interiora. Gli umili verdura e legumi vennero adoperati nel banchetto di corte, ma
unicamente, sottolineo unicamente se accompagnati a pietanze di valore regale. Tramite quindi
questo geniale artificio potevano elevarsi ad un grado superiore.
Ma il vero protagonista fu lo zucchero, al tempo costosissimo, quindi
status symbol, utilizzato in grandi quantità ed ovunque, non solo per le preparazioni dolci. Nel Rinascimento si principiò ad accantonare l’impiego massimale del miele, tanto centrale nel Medioevo. Il dolce, ma non solo il
dolce, prevaleva come gusto principale nelle pratiche gastronomiche rinascimentali.
Fra tardo Medioevo e Rinascimento ci furono però delle assonanze, da un punto di vista
dell’utilizzo di alcune pietanze o preparazioni, come gli arrosti, le paste ripiene, le torte, i pasticci
in crosta, i persistenti e fondamentali contrasti agro-dolci (l’arte della mescolanza dei sapori,
dell’artificio, del cuoco che modificava consistenza, forma e colore dei cibi si confermarono
centrali nel Rinascimento), alcune salse leggere o leganti ed addensanti come mollica e mandorle,
seppur rimodulati. Gli agrumi rimasero elemento aromatizzante basilare e la frutta acquisì una
posizione preminente fra le pietanze servite anche in apertura del pasto. Questa assenza di stacchi netti
fra le pratiche di cucina nei secoli, questo rimodularsi e ripresentarsi di pietanze e ingredienti
passati su quelli nuovi è tipico della storia della gastronomia: non è possibile ragionare per
compartimenti stagni, le pratiche gastronomiche sono tali perché si caratterizzano per un continuo
scontro, incontro, rimodellamento e adattamento sui gusti precedenti. Quindi alle volte nelle
trattatistica di uno specifico periodo possiamo trovare dei dati, delle info che in prima analisi non
collimano fra di loro, ma necessita altresì una ragionamento su un ordito temporale molto più
vasto.
Stupire ed ostentare per magnificare la potenza dell’anfitrione.
Gli interminabili banchetti erano strutturati su un continuo alternarsi di spettacoli (musiche, canti,
recite, fuochi d’artificio, giochi e balli) e fasi mangerecce. La fase mangereccia era suddivisa in
più sezioni, dette servizi, ognuno dei quali forniva almeno 10 portate, con un computo totale di
50-60 portate diverse. A seguire dolci e frutta, quest’ultima spesso servita volutamente fuori
stagione per sorprendere i convitati (serre). I servizi erano di due tipi, di credenza e di cucina, si
alternavano. La credenza era un mobile dotato di un grande ripiano posto nella sala del banchetto
ed esponeva pietanze fredde (crudi, verdure, antipastini, formaggi). I servizi di cucina erano
sempre caldi e vari (zuppe, pasticci, paste, carni e pesci bolliti, arrosti e umidi).
Paolo Veronese, Nozze di Cana, 1563, particolare. Museo del Louvre, Parigi.
Per l'allestimento dei tavoli dei banchetti veniva principalmente utilizzato il servizio alla francese, con tutte le portate di
un servizio “x” poste sul tavolo in contemporanea dimodoché il commensale potesse servirsi
autonomamente e comporre il piatto personale seguendo il proprio gusto.
Alcuni banchetti erano addirittura pubblici: attorno alla tavola, ma a debita distanza, venivano
erette delle tribune dalle quali i cittadini potevano assistere al pasto dei propri signori. I convitati
dovevano rispettare un rigido cerimoniale e sedersi sui posti pre-assegnati: chi possedeva un
grado nobiliare più elevato si trovava fisicamente più vicino al signore, il quale, assieme alla sua
famiglia o ad ospiti illustri, dominava la scena del banchetto su un ripiano più elevato. Le sale
erano opportunamente addobbate con faraonici candelabri, arazzi e tessuti di ogni foggia e colore.
Ma quali erano le altre contestualità che abbellivano la tavola contribuendo alla realizzazione di
questa sorta di teatro totale?
Trionfi di zucchero e saliere erano centralissimi per l’estetica delle tavole rinascimentali. I trionfi di zucchero erano delle raffinate statue effimere animalesche che rimandavano anche ai modelli
dell’antichità, realizzate unendo zucchero alla gomma adragante, all’acqua di rose e ai chiari
d’uovo. Venivano modellati prima dell’indurimento e posti in bella vista sulle tavole dei banchetti
assieme alle saliere di ceramica, finemente dipinte.
I tovaglioli erano anch'essi i protagonisti dei banchetti. Bianchissimi, puri, regali, erano
ingegnosamente e sapientemente piegati per attirare l’attenzione. Le forme erano le più svariate:
uccelli, statue, navi, pesci, ecc… Al contempo il frequente lavaggio delle mani era un rito, al convitato veniva
offerta una soluzione di acque odorifere per potersi toelettare. Qui vediamo alcune pagine e riproduzioni contemporanee tratte dal Trattato delle piegature di Mattia Giegher del 1629 contenuto ne Li tre
trattati: una summa dell'arte della piegatura, tanto in voga già cento anni prima presso le corti
italiane.
Gli apparati di credenza, da non confondere con i sopra citati servizi di credenza, erano
ripiani coperti con tessuti pregiati e strutturati a scalinate. Siti di lato nelle sale dei banchetti, vi
venivano poste argenterie, ori, maioliche, ceramiche, vetri lavorati con pietre preziose, cristallerie.
Più si esponeva, più il tutto risultava regale e magnificente, maggiore era la considerazione che
gli ospiti riponevano nei confronti del signore, dell’anfitrione.
Alonso Sánchez Coello, Il banchetto dei re, 1599.
Nella foto sopra notiamo dei
coppieri che servono i convitati: all’epoca era prassi mescolare il vino e l’acqua, poiché
quest’ultima poco salubre. Il vino, l’alcool conferivano antisetticità. Attenzioniamo
l’abbellimento delle pareti, il desco con la presenza plurima di alimenti (servizio alla francese), un iniziale
utilizzo della forchetta anche se ancora tormentato (nei secoli precedenti si utilizzavano unicamente il coltello, il cucchiaio e... le mani).
Nell’immagine si possono ravvisare alcune norme del galateo: conversare adeguatamente senza essere
entranti; non rifiutare nulla dalla portata ma prendere in quantità consona, in piccole porzioni alla
forchetta; non poggiare mai i gomiti sul tavolo; se interpellati per un dialogo, per esempio sulla
nostra destra, continuare a masticare spostando il cibo sulla parte sinistra della bocca.
I pasticci o pastelli volativi, le carni ricoperte di fogli d’oro (airone, gru e pavone) o spellate e
rivestite con la pelle di altri animali erano onnipresenti nel banchetto Rinascimentale, soprattutto nel secondo Quattrocento. Il pastello o pasticcio volativo era in sostanza una sorta di
torta cotta, vuota e riempita successivamente di uccelli vivi, rinchiusi dalla pasta come se fossero
in gabbia. Veniva portato in tavola e aperto davanti ai presenti in modo tale che gli uccelli
volassero via fra lo stupore generale.
Bartolomeo Scappi, Opera, 1570.
I mestieri della cucina in epoca rinascimentale, concepiti anch'essi in forma piramidale, erano principalmente i seguenti: Lo scalco era il soprintendente delle cucine, organizzava i banchetti, controllava il
rifornimento e lo stoccaggio delle derrate alimentari, era il capo dei cuochi e della servitù, curava
nei minimi dettagli la mensa del proprio signore, anche la refezione ordinaria. Alle volte apparteneva
a nobili famiglie e vestiva, a differenza del cuoco, in maniera assai ricercata. Nell'immagine sopra vediamo un
tavolo di reveditori che controllano la salubrità delle vivande portate dagli scalchi durante un
conclave (Bartolomeo Scappi, Opera, 1570). Il trinciante era adibito al taglio delle carni:
l'operazione doveva avvenire in aria e si svolgeva secondo un rito gestuale molto teatrale. La
mano sinistra imboccava con la forcina la vivanda carnea e la sollevava in alto, mentre la destra
iniziava a tagliare secondo regole anatomiche ben precise. I pezzi tagliati venivano lasciati cadere
abilmente sul piatto senza essere toccati. Il coppiere: anch'esso di alto rango, offriva la coppa
direttamente al suo signore durante il banchetto. Poteva permettersi di prelevare per proprio uso
i fiaschetti del vino rimasto imbevuto. Il bottigliere: officiale subordinato al coppiere, era
l'addetto alla gestione delle bevande, acqua e vino ed eseguiva l'assaggio delle stesse: se il liquido era avvelenato i convitati erano salvi! Il credenziere: responsabile diretto
dell'allestimento della credenza di servizio, ne controllava ogni aspetto. Qui, come detto,
venivano posti i cibi freddi (preparati in anticipo) che si alternavano ai servizi caldi di cucina.
Dunque il signore rinascimentale si circondò di artisti e di figure professionali che ruotavano attorno
al banchetto. Era esigente e doveva rispettare un preciso galateo. Per l’appunto in questo periodo
fiorì una vasta letteratura specializzata di cui vado a dare, brevemente, un accenno.
Cristoforo di Messisbugo nel 1519 fu sottosospenditore ducale con
Alfonso I d’Este. Con Ercole II divenne provveditore ducale, mantenendo l'incarico sino alla
morte. Fu nominato conte palatino da Carlo V nel 1533. Re dei banchetti, nel suo Banchetti,
composizione di vivande e apparecchio generale del 1549 dettagliò meticolosamente 14 cene
organizzate presso la corte estense. Il testo fu il primo manuale della storia a proporre modalità
per imbastire i banchetti. Importantissimo. Bartolomeo Scappi fu il più celebre cuoco
rinascimentale, prestò servizio nelle cucine vaticane come cuoco secreto (personale) di Pio
IV e Pio V. Il suo monumentale Opera del 1570 rappresentò la summa definitiva dell’arte
culinaria rinascimentale. Notissime sono le sue 27 tavole nelle quali riporta minuziosamente
le caratteristiche delle cucine, gli strumenti e gli spazi ad esse collegati.
Il trinciante di Vincenzo Cervio, 1581. Cervio, a servizio presso il cardinal Alessandro
Farnese, descrive in modo didascalico come si deve tagliare carne, in particolare gli uccelli
(pavone, tacchino, fagiano), ma anche pesci, frutta, pasticci o un semplice uovo alla tavola del
signore. Secondo l'autore, il trinciante ideale deve essere anche brillante nella sua educazione e
nella sua morale.
Dello scalco di Giovanni Battista Rossetti, 1584. Altro valevole compendio di tutta la
letteratura culinaria apparsa durante il Cinquecento è testo di grande rilevanza storiografica.
Giovanni Battista Rossetti fu scalco e organizzatore di banchetti alla corte del duca di Ferrara
Alfonso II d'Este, operando dopo Messisbugo. E’ ricordato in particolare per l'ideazione del
tortello di zucca.
Baldassarre Castiglione è stato un umanista, letterato, diplomatico e militare, al servizio
dello Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del Ducato di Urbino. Tra il 1513 ed il
1524 scrisse Il Cortegiano, dopo la sua esperienza presso la corte urbinate della
duchessa Elisabetta Gonzaga. Il testo si presenta in forma di dialogo, in quattro libri, e descrive
usi e costumi ideali del perfetto cortigiano. Galateo overo de’ costumi di Giovanni della Casa è del
1558. Della Casa fu un letterato, scrittore ed arcivescovo italiano. Il trattato, scritto anch’esso in
forma dialogo, condensa le molteplici esperienze di diplomazia e di vita cortigiana accumulate
dal della Casa in qualità di nunzio apostolico a Venezia e segretario di stato durante il pontificato
di Paolo III.
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