Interconnessioni sistemiche tra modelli agricoli ed alimentari. L'apporto islamico alla Spagna. Prima parte

Le coste del Paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno rappresentato da sempre il punto d'incontro di differenti culture, sin dai tempi del Neolitico. Durante i secoli passati si sono susseguite numerose ondate di migrazioni generate da svariate popolazioni, le quali avevano la necessità di ricercare condizioni di vita maggiormente accettabili. L'opportunità è sempre stata ghiotta: la presenza nel Sud geografico di terre assai più fertili ed agilmente insediabili, pronte ad essere sfruttate approfittando tra l'altro di un clima decisamente meno disagevole, incentivò sempre più questi epocali spostamenti di masse. Popolazioni asiatiche, nord europee e africane si insediarono così a più riprese nei nostri territori mediterranei, interconnettendosi con le comunità preesistenti. Ne risultò una ibridazione culturale ed un arricchimento vicendevole senza precedenti: religioni, lingue, modelli politici ed alimentari si amalgamarono come non mai, soprattutto durante il periodo medievale.

All'inizio del V secolo un complesso e graduale fenomeno di integrazione, avvenuto fra Germani e Romani, principiò a sfumare quelle marcate, vicendevoli divergenze e quelle sistemiche contraddizioni  fra le due macro aree sociali presenti sin dalla tarda antichità, facilitando trasferimenti ed ibridazioni culturali caratteristici dell'epoca. Gli Ostrogoti si insediarono in Italia, Visigoti e Svevi in Hispania, i Vandali nell'Africa Proconsolare, Angli e Sassoni in Britannia, i Burgundi in Gallia. La cultura silvo-pastorale del Nord incontrò il modello agricolo mediterraneo, stanziale. E quindi, l'altro modello, quello che si fondava sulla triade pane-vino-olio, tipico delle nostre latitudini, cominciò ad ibridarsi generando così nel tempo nuovi sistemi alimentari.

L'altro elemento di rilievo, a livello storico, è rappresentato dalle interconnessioni culturali generate dall'espansione islamica sulle coste del Mediterraneo. In quel periodo si realizzò un crescente e perdurante trasferimento di piante autoctone orientali nel nostro Occidente. Tra il 700 ed il 1250 i popoli musulmani furono i fautori di un rinnovamento agricolo e alimentare senza precedenti, particolarmente in Sicilia e in al-Andalus. Quest'ultima vide la luce durante la prima conquista dei territori iberici da parte dagli Omayyadi nel 711, avvenuta a scapito dei Visigoti.

Le cucine medievali musulmana e occidentale condivisero alcune evidenti peculiarità, come l'utilizzo dello zafferano, colorante principale delle pietanze, ed i centralissimi mix di spezie. Altri elementi ricorrenti fra le due culture sono rappresentati dall'uso dell'acqua di rose, dei limoni, delle arance, delle melagrane e delle mandorle. Nei paesi islamici il modello di coltivazione si ampliò sempre più verso un carattere intensivo, di mercato e mutarono le coeve tecniche utilizzate, precedendo temporalmente il cambiamento feudale europeo. Con l'espansione moresca nell'Europa geografica assistemmo ad una integrazione economica e culturale di entità che fin ad allora si erano sviluppate separatamente. Il sistema irriguo dei terreni giocò un ruolo preminente in questo rinnovato scacchiere geo-politico. 

Nuovi vegetali, nuove realtà, fecero la loro comparsa alle nostre latitudini. Pensiamo per esempio allo spinacio e alla melanzana, già acclimatatisi in India, mentre le antenate selvatiche di canna da zucchero, riso e banano, trasferiti in massa in Occidente dai musulmani, erano originarie delle zone con clima tropicale e subtropicale. La Penisola Iberica e l'Italia meridionale, al centro di questi mutamenti strutturali, videro un pullulare di spazi irrigati e di ecosistemi artificiali che permisero la coltivazione di queste nuove specie. 

Agrumi. Gli agrumi furono i protagonisti di un continuo spostamento verso ponente. Originari della Malesia, dell'Estremo Oriente, dell'India e della Cina, la prima specie ad insediarsi e ad espandersi nel contesto geografico mediterraneo fu il cedro (Cidrus medica). Il nucleo più antico del romano ed apiciano De re coquinaria propone due ricette nelle quali il frutto è il protagonista ed alcune modalità per conservarlo, indicando anche come le foglie prodotte da questo albero fruttifero siano funzionali alla profumazione del vino in sostituzione delle rose; più avanti, da un'edizione del De re coquinaria contaminata da altre fonti, derivarono gli excerpta di Viridario dove si indica che le foglie secche del cedro sono ottimali come condimento delle pietanze e si raccomanda di tenerle sempre in dispensa. Il cedro viene anche illustrato da Plinio e Virgilio nelle loro opere. Abbiamo evidenti ragioni per affermare che, sin dalla prima metà del I secolo d.C., fosse stato nelle "grazie" di diversi cultori romani dell'arte mangereccia. Nel IV secolo sono documentate coltivazioni di cedri nei magnifici e fertili orti napoletani. Risale invece al IX secolo l'acclimatamento delle restanti piante appartenenti alla famiglia degli agrumi sulle coste mediterranee europee e del Vicino Oriente ad opera delle popolazioni musulmane.

Il cedro è il protagonista delle coltivazioni in al-Andalus, la Spagna islamica, intorno al 960. Questa notizia è riportata più volte nel Calendario de Córdoba, mentre limone (Citrus limon), limetta (Citrus aurantifolia) e arancia amara (Citrus aurantium) si sarebbero acclimatati successivamente poiché non riscontriamo loro menzioni in quella fonte. L'arancia dolce arriverà in Europa molto più tardi. Ibn Battuta, storico e viaggiatore che percorse in lungo ed in largo Asia, Africa ed Europa, vissuto nel XIV secolo, ci informa, nel rendiconto delle sue esplorazioni dei paesi islamici, che la presenza dell'arancia dolce è circoscritta unicamente all'India. Anche la filologia ci viene indirettamente in aiuto nell'analisi di questo dato: narany è il termine arabo utilizzato per definire questo frutto e successivamente adoperato in diverse zone dell'Occidente, mentre l'appellativo burtuqal, chiaramente neolatino e derivante da "Portogallo", designa invece l'arancia dolce. Questo dato ci suggerisce che la sua introduzione in Europa sia da collegarsi all'arrivo della flotta portoghese di Vasco da Gama in India, al termine del VX secolo.

Andalusia. Il Calendario de Córdoba ci informa che margotta e talea erano i sistemi maggiormente utilizzati per piantare gli agrumi. Le talee venivano sistemate nei terreni dei vivai durante il mese di aprile e qui rimanevano per circa due anni. Successivamente i germogli, assieme alla piota, venivano trapiantati  nei frutteti o negli orti. Gli agricoltori di quelle zone erano assai scaltri, poiché si avvalevano sovente di un'altra tecnica per strutturare gli agrumeti, come ci indica Ibn Bassal nel Libro de Agricoltura: i semi delle piante venivano interrati in un vaso nel mese di febbraio, gli agricoltori selezionavano i germogli migliori per poi trasferirli in vasi d'argilla o semenzai dentro i quali rimanevo per due anni durante la crescita. I piantoni venivano periodicamente annaffiati mentre della sabbia veniva posta sulla terra per evitare l'evaporazione. Una volta che le piante avevano raggiunto una dimensione sufficiente venivano trapiantate nel luogo prescelto. Ovviamente gli agrumeti andalusi sviluppavano unicamente in quei terreni che i musulmani mettevano a regime irriguo e potevano beneficiare del benefico clima di al-Andalus, in primis un sostanziale caldo, mentre dal mese di novembre le piante venivano opportunamente coperte e protette dalle gelate.

Il cedro godeva di molta stima fra i dietisti andalusi, lo consideravano apportatore di vantaggiose proprietà curative:

La buccia ristora lo stomaco e produce un buon rutto; il succo neutralizza le palpitazioni e lo svenimento causati dal calore; l'olio che contengono i suoi semi costituisce un buon rimedio per le emorroidi.

          Un tratado nazarí sobre alimentos: al-kalam alà l-Agdiya de al-Arbuli

E Ibn Bassal sulle arance amare:

Le bucce delle arance amare macerate in olio d'oliva curano la stitichezza  e la flatulenza.

Da un punto di vista prettamente gastronomico, grazie ai suoi marcati profumo e sapore acido, gli agrumi vennero grandemente utilizzati nella cucina andalusa come condimenti delle pietanze, ma anche adoperati per la realizzazione di salse agrodolci o per stemperare il carattere entrante di aglio e cipolla. Con limette, limoni e pompelmi venivano realizzate svariate marmellate (il Calendario ci informa che nel mese di gennaio si preparavano marmellate e sciroppi di pompelmo), paste e sorbetti. Altro fattore che giocava a favore del consumo di agrumi o di alimenti da essi derivati era (ed è) rappresentato dalla loro estrema facilità di conservazione, dovuta all'intrinseca acidità, la quale garantiva la sicurezza del prodotto nel tempo e nello spazio.



 



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