Prima della panificazione: il taro, agli albori delle colture

Andando molto a ritroso nel tempo di diversi millenni, prima che la panificazione prendesse piede nelle società e la lavorazione del frumento fosse al centro delle economie alimentari dei popoli, il consumo di tuberi e radici, ancor più delle piante erbacee in generale, rappresentò la principale fonte di sostentamento per numerose civiltà. La domesticazione colturale di questi due elementi spesso si sovrappone, cronologicamente e geograficamente, a quella delle ben più comuni graminacee commestibili. 

E' per esempio il caso della colocasia esculenta, comunemente denominata taro, una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Aracee, che regala tuberi molto simili alla patata, più tozzi e scuri. Un primato assoluto: il taro è considerato essere la prima pianta portata a coltura massimale prima dell'avvento strutturale della panificazione. Un processo di addomesticazione quasi scontato, favorito dal fatto che ogni singola parte del cormo (fusto, foglie e tuberi) non è indigeribile, a differenza delle granaglie. La tesi della presenza e del consumo di alcune tipologie di tuberi e radici tra le popolazioni prima dell'avvento dei cereali è oramai ampiamente sostenuta dagli storici dell'alimentazione.

Assai agevole da ripiantare, il taro si riproduce per via asessuata, ciò rese possibile ai primi agricoltori della storia creare varietà per selezione. Altre peculiarità lo candidano ad essere la prima coltura in assoluto: si coltiva con uno sforzo veramente minimale, garantisce una resa superlativa, le metodologie di preparazione sono tecnicamente banali da realizzare e possiede un elevato contenuto di amidi, accessibili ad ogni tipologia di apparato digerente. Un cibo per tutti, insomma. 

Il taro ha dimostrato una marcata adattabilità alle varie fisionomie di terreno, sono presenti alcuni specifici ceppi che si radicalizzano agevolmente in ambienti lacustri umidi o in territori collinari estremamente asciutti. Gli studi agroarcheologici hanno rivelato molto sulla dislocazione geografica della pianta nel mondo. Successivamente ai devastanti cambiamenti climatici avvenuti 10.000 anni fa tra Australia e Nuova Guinea, in quest'ultimo territorio prese il via la primissima coltivazione autoctona del taro, allocato in alcune cavità acquitrinose collinari occidentali. Possiamo rintracciare la presenza del tubero anche nella palude di Kuk, 9000 anni fa, dove rialzi, canali e fossati furono meticolosamente realizzati per favorire una resa massimale, mentre 7000 anni fa anche le popolazioni di alcune terre situate tra oceano Indiano e Pacifico occidentale adottarono questa coltivazione. 

Il cuore del suo consumo resta però dove ha avuto origine la sua storia, cioè nelle zone geografiche d'incontro tra i due oceani, specialmente in Nuova Guinea e nelle Filippine, alle quali si aggiungono, in epoca più tarda, le isole del Pacifico, grazie ai coloni che portarono in questi luoghi le piante di taro, fino al 2000 a.C.. Anche il Giappone testimonia la presenza della colocasia esculenta sul proprio territorio, anche se il suo consumo è da mettere quasi esclusivamente in relazione alla festa rituale annuale della contemplazione della luna.

Alle Hawaii le popolazioni locali sono solite adoperare la varietà a polpa rosata, ricavandone una pasta denominata poi, considerata una sorta di alimento regale e piatto nazionale. Si stufano i tuberi in acqua e successivamente, una volta triturato il tutto, il composto risultante viene lasciato fermentare per alcuni giorni.

Spostandoci temporalmente in avanti e analizzando i modelli alimentari della società contemporanea, il senso del gusto, è doveroso sottolineare alcune criticità. Il taro non può ovviamente rivaleggiare con patate, mais o riso, al centro dei consumi correnti, semmai è indicato come elemento secondario all'interno di un pasto variegato. In una realtà consumistica dove la conservazione degli alimenti è al centro delle pratiche, assieme alla estrema mobilità geografica delle derrate durante il trasporto, la labile durevolezza del taro non gli consente di aderire ai processi di immagazzinamento e redistribuzione oggi adottati. Non è particolarmente appetibile, molte varietà sono piuttosto insipide, il poco sapore presente si avvicina a quello dell'igname, ciò non ha favorito la sua centralità nei consumi.



  

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