L'azteco tomatl: corsi e ricorsi di un'identità cultural-gastronomica universale

Una "identità" gastronomica è sovente caratterizzata da peculiarità decisamente poco determinabili a livello storico-cronologico, non è possibile strutturarla dentro compartimenti stagni, definirla puntigliosamente: figlia molte volte del caso, sicuramente si realizza e prolifica grazie ad incontri, scontri e scambi continui, spesso fortuiti, tra culture e popoli assai differenti tra loro.

1532: è questa la data nella quale il pomodoro venne introdotto in Europa dopo la conquista spagnola. Originario delle Ande ed in azteco chiamato tomatl, con una addomesticazione avvenuta in Messico, il nuovo prodotto godé di uno status piuttosto particolare per molto, molto tempo: dapprima utilizzato come pianta ornamentale in giardini ed orti, successivamente protagonista come dono galante e prodotto medicinale, era ancora molto lontano dall'essere significativamente adoperato in cucina - letteralmente disprezzato all'inizio - e assurgere a valore di identità cultural-gastronomica. E' da sottolineare per l'appunto il fatto che, nonostante il giro di volta del 1492, nella vecchia Europa non si registrarono significativi mutamenti sul piano delle pratiche alimentari, perlomeno nel medio periodo; la presenza dei nuovi protagonisti importati dalle Americhe, come il pomodoro, poco influì sulle usanze di cucina già esistenti e certamente suscitò grosse perplessità tra gli scienziati e gli studiosi, per lungo tempo, un poco come la patata. Soltanto qualche secolo dopo, con estrema lentezza, uno specifico utilizzo del pomodoro contribuirà ad apportare nuovi fondamentali tasselli all'identità culturale italiana in primis ed europea. 

Mentre Asia e Africa già da diversi secoli interagivano stabilmente su più fronti con i popoli europei, anche in campo alimentare, gli "scambi colombiani", - idee, uomini e prodotti che circolavano da una parte all'altra dell'oceano - portatori di novità totalmente inattese all'inizio, ebbero delle prerogative di diffusione assai più complesse. Da parte dei colonizzatori, in quel frangente, assistemmo ad una sorta di "paura del nuovo". Sentirono la necessità di determinarsi culturalmente nel nuovo territorio anche con i propri prodotti: per un mais che approdava in Europa, per esempio, c'era un frumento che partiva per l'America; da noi arrivavano patate ed esportavamo carote. Vi fu quindi un evidente tentativo di acclimatazione soft nei nuovi territori, sicuramente facilitato anche dalla presenza dei prodotti alimentari già conosciuti - rassicuranti- importati dall'Europa.

Intorno agli ultimi anni del 1500 è segnalata la presenza della bacca in Inghilterra, dove i love apples venivano usati come pianta ornamentale, mentre nella fascia meridionale europea, vedi Spagna, Napoli e parte della Francia, si tentò un primo, flebile approccio culinario.

[...] Sono questi schiacciati come le mele rosse e fatti à spicchi, di colore prima verde, e come sono maturi, in alcune piante rossi come sangue, e in altre di color d'oro.

Costanzo Felici, uno dei più importanti botanici della storia, presentava in questi termini il nuovo strano prodotto nel suo trattato Del'insalata e piante che in qualche modo vengono per cibo dell'homo del 1572. Affermando pacificamente di non gradirlo affatto, consigliava di consumarlo in piccole quantità, eventualmente fritto o accompagnato con del comune succo d'agresto come fanno quei pochi ghiotti et avidi de cose nove.

Poco più di dieci anni dopo il medico e botanico Castore Durante rimarcò il concetto. Nel suo Herbario del 1585 non usa mezzi termini:

Ritrovanse una sorte che non fa frutti à spicchi, ma tondi come le mele appie, e gialli rossi [...]. Mangiansi nel medesimo modo che le melanzane, con pepe, sale e olio, ma danno poco e cattivo nutrimento.

In veste di salsa possiamo trovare una primissima attestazione del pomodoro nella testimonianza dello scrittore gesuita spagnolo José de Acosta:

Per temperare il sapore del peperoncino si ricorre al sale, che lo corregge molto, perché essi sono molti diversi l'uno dall'altro e i loro effetti si frenano reciprocamente, ma si ricorre pure alle tomate, che sono fresche e sane e sono delle speci di grossi acini sugosi, che fanno delle salse saporite, ma sono ugualmente buone da mangiarsi da sole.

Il pomodoro cominciò lentamente a ritagliarsi uno spazio tutto suo nelle pratiche dell'alta cucina europea solamente nel corso del Settecento, dopo mille inciampi. Già nel 1694 il famosissimo cuoco fabrianese Antonio Latini, nel suo trattato Lo scalco alla moderna, inserì una salsa di pomodoro "alla spagnola", con un evidentissimo influsso iberico. Da sottolineare che proprio Spagna ed Italia furono tra i paesi europei maggiormente ricettivi rispetto ai nuovi prodotti alimentari importati dalle Americhe. Tra fine XVIII e inizio XIX secolo il pomodoro venne inserito in due celebri libri di cucina napoletani. Nella ricetta In stufa al sapor di pomodoro, all'interno de Il cuoco Galante (1773) di Vincenzo Corrado, lo si utilizza come ingrediente principale per stufare cosce di capretto, assieme a burro e svariati aromi, oppure proposto assieme a peperoni e peperoncino per condire soffritti di interiora di maiale; ed ancora baccalà al tegame e maccheroni in salsa. Ma il cuoco brindisino riserva maggiore attenzione al pomodoro, proponendocelo ripieno, nel suo celebre Del cibo pitagorico ovvero erbaceo del 1781: Farsiti a frittura, Farsiti alla crema, Ripieni alla nobile, Alla salentina, Farsiti alla turca, Al rognon di vitello, Alla aragosta, Alla certosina, In crocchetta, In frittata. Corrado non lesina neppure alcune importanti note, anche di stampo dietetico, sulla versatilità della rossa bacca:

Varie gustosissime vivande si possono fare di pomidoro, ed infinite conditure col sugo loro si prestano alle carni, ai pesci, all'uova, alle paste, ed all'erbe, onde con ragione da un eccellente cuoco furon li pomidoro chiamati gustosi bocconi, e salsa universale. Questi pomi non solo dan gusto al palato, ma a sentimento de' Fisici facilitano molto con il loro sugo acido la dicestione, particolarmente nella loro stagione estiva, che per soverchio calore l'uomo ha lo stomaco rilasciato e nauseante.

Il pomodoro, per Corrado, può avere mille usi come componente principale nella realizzazione di salse grasse o salse magre: ad esempio può essere soffritto con il lardo ed accompagnato con fette di prosciutto, cipolline, alloro, peparolo di Spagna ed erbette aromatiche, oppure strutturato con olio, aglio, basilico, origano e prezzemolo; in entrambi i casi bisognerà allungare con brodo e si farà tutto disfare, si passerà per setaccio, e se ne farà uso in tutto, ben sgrassata.

Un salto temporale di circa sessant'anni ci porta dritti verso gli anni Trenta dell'Ottocento. Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, cuoco e letterato originario di Afragola, nella sua Cucina casarinola co la lengua napoletana del 1839, situata in appendice alla seconda edizione della Cucina teorico-pratica, ci suggerisce una deliziosa nonché veloce salsa di pomodori: vengono bolliti, passati al setaccio, ulteriormente ristretti con olio e sugna, salati e pepati. Gli abbinamenti possono essere i più svariati: polli, pesce, carni, uova e ncoppa a nzò che buò (sopra a quello che vuoi).

Per un esponenziale utilizzo della salsa al pomodoro, trasversalmente fra tutte le classi sociali, bisognerà attendere l'epopea dei grandi pastifici industriali del Sud di fine Ottocento. A partire da questo preciso momento possiamo definirla come una vera e propria identità culturale gastronomica, salsa universale che rientrò nella quotidianità dei pasti di larghe fasce di società. Un binomio imprescindibile, salsa al pomodoro e pasta, che definì i caratteri costitutivi cultural-gastronomici di intere generazioni. A tal proposito è funzionale aprire una parentesi storica proprio sulla pasta.

L'origine della pasta fresca viene fatta risalire all'antichità, si diffuse in molte zone del Mediterraneo e, con sviluppi diametralmente opposti, in Cina. Come non citare la lagana di epoca greco-romana, manufatto alimentare ampiamente utilizzato anche nelle pratiche di cucina medievali. Con la conquista araba della Sicilia, avvenuta nel IX secolo, cominciammo a familiarizzare con la pasta secca. Il famoso geografo arabo al-Idrisi, vissuto a cavallo tra XI e XII secolo e alle dipendenze di Ruggero II di Sicilia durante la dominazione normanna dell'isola, non a caso ci informa che già nel 1100 era presente da tempo a Trabia, fuori Palermo, una fiorente produzione di pasta secca di grano duro, tra vermicelli e maccheroni:

[...] si fabbrica tanta pasta che se ne esporta in tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; e se ne spediscono moltissimi carichi di navi.

Punto di svolta nella diffusione della produzione della pasta fu l'invenzione del torchio meccanico: Toscana, Puglia e Liguria diventarono così i nuovi centri nevralgici per la realizzazione e la commercializzazione della pasta secca.

Ora, è da sottolineare il fatto che durante il Seicento la pasta era ancora considerata un alimento di lusso, una sorta di sfizio, una delicatezza alimentare, tanto che a Napoli ne fu vietato il suo consumo durante i periodi di carestia. Un nuovo e lento processo di assimilazione identitaria, una rivoluzione nel gusto e nella sensibilità, presero il via intorno al 1630, quando si verificò una svolta nell'universo culinario dei napoletani, rintracciabile nell'inedito appellativo affibbiato agli abitanti della città partenopea: da mangiafoglia a mangiamaccheroni, quest'ultimo termine precedentemente riferito ai siciliani. Da Napoli cominciò in tal modo una seconda diffusione dell'alimento al Sud, seppur ancora prerogativa dei ceti sociali più elevati.

Ancora segno di distinzione economica e sociale durante la prima metà dell'Ottocento, la pasta generò gradualmente lo stereotipo dell'italiano, soprattutto del meridionale, mangiaspaghetti e mangiamaccheroni. A fine secolo assistemmo ad una marcata generalizzazione dei consumi, tanto che la pasta surclassò il pane come principale elemento nell'organizzazione della cucina. La nuova vocazione alimentare aprì la strada ad altri protagonisti: la pizza al pomodoro divenne un pasto comune venduto nelle strade, nelle botteghe e nelle piazze. Le inedite figure del maccaronaro e del pizzaiuolo restituiscono grandemente la visione di una marcata trasformazione del costume alimentare, verificatasi proprio in questo periodo.

François Lenormant, il celebre archeologo francese, nei suoi due viaggi a Catanzaro del 1879 e del 1882, rimase totalmente sbalordito dalla rutilante vita dei mercati, dove enormi piramidi di pomodori, tutte ammucchiate, facevano bella mostra di sé, sottolineando come la conserva di pomi d'or fosse così centrale e diffusa nelle pratiche gastronomiche calabre. L'azteco tomatl venne così definitivamente assunto a identità culturale mediterranea. Ecco le pittoresche parole di Lenormant sulla conserva di pomodori:

Noi siamo, in effetti, nella stagione in cui, in ogni casa calabrese, si manifattura la conserva di pomidori per l'uso del resto dell'anno. E' un'occasione solenne nella vita popolare di queste contrade, una specie di festa, un pretesto a riunioni ed a veglie, come nel mio paese di Bugey. [...] I vicini, soprattutto le vicine, si riuniscono successivamente gli uni in casa degli altri per la conserva di pomi d'or, operazione che termina con un gran pranzo; e si ciarla a più non posso mentre si schiacciano e si cuocciono i pomodori.


 

 



 





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