La patata e la Calabria. Un binomio complicato

La patata, l'altopiano andino. Bisogna andare molto a ritroso nel tempo, nell'America meridionale, per risalire al primo consumo di massa del tubero della pianta, elemento preponderante nell'alimentazione del popolo Incas, che la coltivavano tra i 4000 ed i 4500 metri d'altezza. A livello etimologico patata deriva da batata, parola di origine caraibica che significa patata dolce. I conquistadores spagnoli la portarono nel vecchio continente intorno al 1570, dal 1610 prosperò come prodotto agricolo tra i ceti meno abbienti di Inghilterra ed Irlanda, trasferendosi direttamente da questi territori nel Nord America intorno al 1719. Per quasi tutto il XVIII secolo i Francesi la esclusero dalle proprie preparazioni culinarie, poiché la si credeva portatrice di malattie, fino al noto evento del 1780 quando il farmacista Parmentier se ne nutrì durante la sua prigionia prussiana dopo la guerra dei Sette anni, facendola accettare ai suoi compatrioti.

Nel Meridione d'Italia, diversamente dal pomodoro e dal mais, la patata entrò con molta difficoltà ed assai lentamente nel costume gastronomico della cucina popolare, fino a quando, grazie all'iniziativa di svariati botanici, medici e cuochi che la indicavano anche per la panificazione, assistemmo ad una sua graduale presenza tra i fornelli. Da un punto di vista della trattatistica coeva certamente è assai rilevante l'opera di Vincenzo Corrado, uno dei più importanti cuochi e gastronomi di fine '700. Nel suo Trattato delle patate del 1798 troviamo numerose ed originali ricette strutturate sulle patate, variamente adoperate, con una sorta di introduzione sul loro possibile utilizzo in cucina, anche per quanto concerne la panificazione o la realizzazione di paste e dolci. Ecco quindi le patate fritte, arrostite, ripiene, in bignè, cotte al forno, in polpette, ingentilite con mix di erbe; ed ancora in purè di lenticchie o di ceci, addizionate con creme, mostarde, panne, pistacchi o grasso di vitello. 

L'utilizzo della patata, oggi elemento fondamentale nelle pratiche di cucina, capillarmente diffuso, si caratterizzò per l'estrema difficoltà ad attecchire nella società, almeno all'inizio. Non a caso solo a Napoli se ne faceva già gran uso alla fine del XVIII secolo, mentre nel resto dell'Italia geografica, particolarmente al Sud, le patate erano ancora trattate con estrema diffidenza e considerate alla stregua di alimento per maiali. Particolarmente illuminanti, circa lo status alimentare dei tuberi, sono le parole dello scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne, in visita in Calabria tra il 1777 ed il 1778. Intento a preparare la cena ai frati del convento dei Minimi a Monteleone, che lo avevano cortesemente ospitato durante il suo viaggio, ecco cosa ci racconta:

Poiché sapevo che le patate erano qui una rarità, invitai i superiori del monastero a partecipare alla mia cena; ma nessuno dei modi in cui le feci preparare riuscì sufficientemente gradito al loro palato; dopo il primo boccone tutti rifiutarono di mangiare una pietanza così insipida. Il mio domestico ebbe maggior successo alla mensa dei conversi per aver coperto la pietanza con burro misto ad una forte salsa di pepe della Giamaica e di aglio, grazie alla quale la sua cucina riscosse unanime plauso.

Il pepe della Giamaica, bacca immatura ed essiccata di un arbusto tropicale avente un aroma assai particolare, un misto tra noce moscata, chiodi di garofano e cannella, proviene dell'America centrale e dalle Indie Occidentali, fu scoperto dai conquistadores spagnoli in Messico. I Londinesi ne facevano già un discreto uso all'inizio del Seicento e se lo portavano dietro nei loro viaggi per evitare di incorrere in una cucina sciapa e poco elaborata. 

Lontana da un utilizzo capillarmente diffuso tra le popolazioni del Sud, la patata risultava "ancora poco conosciuta" secondo la testimonianza di Giuseppe Maria Galanti, storico ed economista, che visitò a fine XVIII secolo le terre calabresi meridionali distrutte dal terribile terremoto del 1783: tra interi casali e villaggi devastati l'unico aspetto positivo riscontrato era la qualità del vino prodotto, mentre nella parte più a nord della regione, tra Castrovillari ed Acri, nel Cosentino, la maggior parte della popolazione non era nemmeno a conoscenza cosa designasse la parola "patata". In un contesto di avversione per il nuovo prodotto, tentativi di coltivazione della pianta si registrarono a Serra San Bruno, nell'entroterra di Vibo Valentia, ad opera dei Certosini, proprio subito dopo l'evento sismico, in un quadro generale caratterizzato da carestia e fame. Anche poco dopo, nel periodo francese di inizio Ottocento, si tentò di convincere i contadini, ma con scarsi progressi. Non a caso la statistica murattiana ci palesa la scarsa considerazione delle popolazioni costiere per il consumo alimentare della patata, mentre nell'entroterra montuoso è presente un timido accenno di panificazione con questo elemento.

Altra testimonianza di peso è quella di Vincenzo Padula, celebre poeta cosentino, che così si esprimeva in alcuni scritti realizzati durante i suoi viaggi calabresi pre e post Unità d'Italia. Si delineava nuovamente una scarsa considerazione nei confronti della patata da parte della società agricola:

La patata neppure è generale. [...] La patata poi del genere convolvulus, venuta dall'Indie, e che prova bene nelle Spagne, ci manca.

Venne introdotta con gran fatica nell'Aspromonte del 1820, ma accolta non solo qui assai freddamente, tanto che, sempre Padula, nel suo dramma Antonello capobrigante calabrese del 1850, ci suggerisce che i briganti della Sila la consideravano unicamente alla stregua di cibo per porci. Il poeta di Acri sottolineava che nella parte ionica della Calabria gli abitanti non si nutrivano minimamente del tubero, poiché «vi è grano; e tutti mangiano pane bianco». Comunemente utilizzati erano i termini scippapatate patatari per designare individui decisamente poco raccomandabili... Corsi e ricorsi della storia: nei luoghi dove oggi la patata è sinonimo di cultura, identità gastronomica, dove viene promossa in numerosissime sagre paesane, fino alla seconda metà dell'Ottocento era ancora considerata nutrimento per maiali. 

Il nuovo alimento, che tentava con difficoltà di inserirsi nei regimi alimentari del Sud, era quindi visto come il principale imputato per un possibile feroce sradicamento dalla cultura precedente, considerato tutt'al più come sostituto della farina durante le carestie. La patata era simbolo di impoverimentoscadimento, era portatrice di carestie - Linneo la chiamava "erba del diavolo" -,  era messa all'angolo grazie anche al proliferare di alcune opinioni negative di medici e altri, convinti che generasse la lebbra e la sifilide. Non aiutava il fatto che a promuoverne il consumo fossero i religiosi in primis, i quali predicavano il digiuno, ma anche i proprietari terrieri, consumatori di pane bianco, accusati di numerosi episodi di avvelenamento a danno dei poveri.

A fine Ottocento assistemmo allo sdoganamento della patata nell'alimentazione dei ceti popolari, tanto da renderla "tipica" di specifici territori calabresi, al pari di melanzane, fagioli e peperoni. Una nuova cucina "del territorio", dove la patata è al centro delle preparazioni popolari, caserecce: patate bollite e olive nere di giara, braciole fritte di patate, patate fritte con melanzane e peperoni, insalate varie, frittata di patate e uova, gnocchi, patate e legumi, patate e riso, patate e pasta, patate con sugo di carni, patate in trippa, pescestocco e patate...

Un successo finalmente raggiunto.






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