In principio furono i ricettari: dagli apporti della tradizione araba a Maestro Martino da Como. Seconda parte

In quale contesto storico e sociale vide la luce il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, ricettario e caposaldo della letteratura gastronomica, punto di svolta che delineò un senso del gusto più marcatamente rinascimentale?

Nel XV secolo Guienna, Borgogna e Bretagna concorsero a realizzare l'unità territoriale della Francia, grazie all'annessione messa in atto da Carlo VIII; al calar del secolo cadde l'ultimo bastione arabo della penisola iberica, il Califfato di Granada: trionfanti, con il crocifisso in mano, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona entrarono in Granada ponendo fine alla Reconquista cattolica; la Confederazione degli otto cantoni portò a 10 i membri della stessa, con l'ingresso di Friborgo e Soletta; ecco l'affermarsi della potenza asburgica in Austria, mentre in Inghilterra nacque la dinastia Tudor. Nell'Italia geografica, nella prima metà del secolo, assistemmo alla presenza di numerosi staterelli in continuo conflitto tra loro, dove il Principato gradualmente prese il sopravvento sulla Signoria: il principe rappresenta adesso il nuovo fulcro del governo del territorio ed esercita una propria autonomia militare e politica. Un complesso sistema di alleanze e di equilibri politici si realizzò infine nel 1454 con la formazione della Lega Italica, che vide unite Firenze, Milano, Venezia, Napoli e la Roma papale, decise a far scemare le rivolte interne e ridurre le invasioni straniere. 

In questo contesto di relativa stabilità politica, la seconda metà del secolo fu contrassegnata da un periodo piuttosto favorevole, spiccatamente vitale, anche in Italia: il principe, fulcro delle manifestazioni artistiche e mondane, divenne il principale promotore di questo ritrovato clima culturale di ampio respiro. Si manifestò la supremazia assoluta dell'uomo rinascimentale, ispirato dalle teorie filosofiche neoplatoniche, ormai distante dai fondamenti ontologici della cultura medievale e proteso sempre più verso altri ambiziosi desideri nella vita sociale. Ecco i doni del fulgore artistico di questa parte di Rinascimento: pensiamo per esempio a Poliziano e Boiardo in letteratura, alla pittura di Bellini e Uccello, Ghiberti e Donatello per la scultura, Brunelleschi. 

Al contempo, attorno al principe, si delineò un ben specifico insieme di norme comportamentali, di stampo gerarchico, nel quale i cortigiani si affannavano ad esibirsi per rendersi a lui graditi e servizievoli, in una sorta di vincolo di proprietà. I ranghi, le posizioni e le funzioni non a caso saranno codificati poco dopo, nel 1513, quando Baldassarre Castiglione, umanista e letterato lombardo, darà alle stampe il suo Libro del Cortegiano, trattato delle buone maniere, dove si enucleeranno le varie contestualità proprie del cortigiano perfetto: la grazia del parlare e dello scrivere, l'avere perizia nelle armi, l'importanza dell'abbigliamento e delle maniere cortesi, l'uso di un "buon giudicio senza affettazione". Città nella città, nel palazzo del Signore è presente un vero e proprio turbinio di oggetti, i più preziosi possibili, espressione della sua potenza sociale e politica: gioielli, arazzi, quadri, tarsie lignee, mobili, cristalli di rocca, pietre preziose, incunaboli, codici miniati e vasellame vario. Etichetta e cerimoniale sono assunti a tratti salienti della vita quotidiana a corte.

Magnificentia et splendor. Sfarzo e sontuosità si ravvisano adesso nei banchetti, nei tornei e nelle feste di corte, accompagnati da caroselli, giochi e rappresentazioni sceniche di ogni sorta, tra una sala ed un cortile. In questo contesto anche l'arte del cucinare, quindi a seguire pure la coeva narrazione scritta, subiscono una loro naturale evoluzione, nelle forme e nei contenuti, lasciandosi definitivamente alle spalle le "rozzezze" medievali.

Sono a disposizione pochi elementi biografici su Maestro Martino, al secolo Martino de' Rossi o Martino de Rubeis. Nacque nel 1430 nel piccolo paesino di Torre, situato in Valle di Blenio, nell'allora Ducato di Milano (Ticino). E' proprio qui che il nostro Martino apprese i primi rudimenti dell'arte culinaria, probabilmente in qualche convento o ospizio dell'attuale Cantone. Presto si trasferì a Milano al servizio di Francesco Sforza, per poi spostarsi a Roma, consolidando la propria fama e prestando servizio nelle cucine vaticane. A metà del secolo e fino il 1465 fu operativo presso il cardinale camerlengo Ludovico Scarampi Mezzarota, patriarca di Aquileia. Il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, il primo trattato di cucina in volgare del 1400, si colloca ampiamente all'interno del nuovo "sentire" rinascimentale. Rispetto ai testi precedenti si caratterizza per una maggiore organicità, completezza e chiarezza espositiva dei contenuti. Il Libro de arte coquinaria si suddivide in 6 capitoli, in parte l'autore riprende, rileggendoli, gli elementi gastronomici del secolo passato, ma soprattutto inserisce ricette originali, alcune palesemente ispirate dalla coeva cucina spagnola.

La descrizione dei servizi iniziali, comprendenti frutta e dolci, è tralasciata da Martino, poiché la loro preparazione e allestimento erano già considerati appannaggio del credenziere, non del cuoco. L'autore, riprendendo l'usanza spagnola, inserisce nel primo capitolo del trattato ben 40 ricette, tutte dedicate alle carni e alle loro varie modalità di preparazione; arrostitura, lessatura, in pastello, in salsa, in crosta o confezionate con mortadelle o salsicce, in gelatina. Qui si evince una pratica di cucina peculiare di questo periodo: una gran moltitudine di carni, come bue, vitello, castrone, capretto, agnello, capra, cervo, capriolo, cinghiale, lepre, coniglio, orso, veniva frequentemente prima lardellata e lessata, per subire successivamente un secondo trattamento, l'arrostitura sulla graticola. Stessa sorte per i volatili: gru, anatra, oca, cigno, cicogna, pavone, airone, gallina e cappone. Un diretto collegamento con i ricettari e le pratiche gastronomiche trecenteschi è da ricercare nell'usanza di rivestire il pavone cotto con le sue penne: ricoperto anche di foglie d'oro, era prassi inserire nel suo becco un batuffolo di bambagia bagnato nell'acquavite al quale veniva dato fuoco durante l'esibizione sulla tavola del banchetto. 

Altro tratto che denota un avvicinamento verso un differente modello culinario è rappresentato dalla denominazione stessa delle ricette, che acquisisce una inedita veste: lasciandosi alle spalle le influenze delle preparazioni arabeggianti (brodo saracenico, salsa saracinesca, somachia, gratonia, limonia e via discorrendo), adesso si attinge ad appellativi direttamente correlati agli ingredienti della ricetta, o derivanti dal lessico spagnolo: mirause, carabaze, pernici al modo catalano o bianco mangiare alla catalana.

Nel secondo capitolo del Libro de arte coquinaria Maestro Martino include 60 tipologie di vivande, cioè quei piatti a base di carne, verdure o frutta che caratterizzano le varie tipologie di minestre di magro o di grasso. Troviamo qui, per la prima volta nella storia, la descrizione per realizzare i rinomati maccheroni romaneschi, i maccheroni siciliani, i ravioli in tempo di carne ed i vermicelli. Questi piatti erano sovente serviti accompagnandoli con il proprio liquido di cottura. Da una veloce analisi si evince che i maccheroni romaneschi descritti da Martino oggi assomigliano in realtà a quelle che noi chiamiamo lasagne, anche se l'autore specifica di confezionarli con pasta un poco più grossa: saranno cotti in brodo di carne durante i giorni grasso ed in acqua nei giorni di magro, potendo utilizzare anche spezie dolci, burro o cacio. Ecco i triti o formentine, cugini dei precedenti, realizzati però con un taglio più grosso della pasta, anche se molto minuta e sottile. I vermicelli invece sono ancora più fini e necessitano di essiccatura al sole per poter poi essere conservati anche per tre anni. Qui è interessante notare una particolare "struttura del gusto" tipica di questo periodo, cioè il modo di pensare la cucina che si riflette direttamente nella preparazione della ricetta: era prassi consumare la pasta "stracotta", diremmo oggi, facendola bollire per circa un'ora. Ed anche qui il solito schema giorni di grasso/giorni di magro: ecco la cottura in brodo di carne o, in alternativa, in latte di mandorla, con le opzioni di zafferano, spezie e cacio. I ravioli in tempo di carne sono molto simili quelli realizzati oggigiorno, ma a differenza di come erano confezionati nel Trecento, una sorta di frittelle fritte nel grasso di maiale, Martino li riempie con erbe varie, carne, cacio, ventresca e spezie.

Nel terzo capitolo vengono descritte 23 ricette comprendenti i sapori, salse composte con erbe aromatiche, frutta, aceto o succo di melagrana ed una base di pane stemperato nel vino. Un'altra importante novità, in relazione agli ingredienti, è da ricercare nel progressivo abbandono delle spezie in favore delle mandorle, finemente pestate nel mortaio. Sono ancora però presenti reminiscenze medievali, come la salsa camelina, la salsa verde e la salsa bianca.

Pastelli e torte di varia foggia sono i protagonisti delle 37 ricette del quarto capitolo. I ripieni sono assai variegati, anche qui funzionali all'alternanza tra i giorni di grasso ed i giorni di magro: carne, cacio, biete, zucche, cacio, rape, ceci, miglio, ma anche frutti come castagne, pere, mele, datteri, ciliegie, o pesci come le onnipresenti anguille; il tutto da condire con un abbondante effluvio di zucchero, acqua rosata e zafferano. Risalta per chiarezza espositiva e struttura formale la ricetta della torta di marzapane, presentata qui per la prima volta e costituita da strati di cialde o sfoglie di pasta alternati a zucchero e mandorle. In questo capitolo 21 ricette sono dedicate alla descrizione di frittelle e pastinache, quest'ultime degli impasti composti da farina, cui si mescolano vari elementi per ottenere differenti sapori come erbe, frutta, pesci, riso, cacio e spezie, il tutto fritto in olio.

Nel quinto capitolo troviamo 14 ricette che ci palesano le varie modalità per la preparazione delle uova: dure, sbattute, in tegame, cotte in acqua, nella cenere o ripiene.

Nel sesto ed ultimo capitolo, con le sue corpose 69 ricette, Martino ci suggerisce il consumo dei vari pesci di acqua dolce e di mare, tramite l'arrostitura, la lessatura e la frittura.

Terminata la descrizione analitica dei 6 capitoli del Libro de arte coquinaria, è funzionale delineare di seguito i punti salienti che costituiscono il corpus delle novità riscontrabili rispetto ai ricettari del Trecento. E' chiara una netta cesura con le pratiche e le strutture del gusto medievali, seppur permangano ancora alcune reminiscenze del passato. Innanzitutto è da porre in netta evidenza l'assoluta organicità, la completezza del linguaggio adottato, l'equilibrio compositivo del testo, assieme alla rigorosa partizione in capitoli del manuale. Queste caratteristiche rappresentano una vera novità nel panorama della trattatistica europea del periodo preso in esame. Come non notare la puntigliosa descrizione delle ricette, con i suoi precisi ingredienti e dosi, molti più dettagliati rispetto ai ricettari del periodo precedente? Un senso del gusto diverso, altro, ci conduce velocemente verso il pieno Rinascimento, con l'utilizzo delle erbe aromatiche che prendono progressivamente il posto delle spezie di stampo medievale. Ecco quindi il prezzemolo, la maggiorana, la menta, il finocchio, l'aglio, il rosmarino e la salvia; presente anche un uso sempre più crescente della mandorla, impiegata per dare corpo ai piatti ed insaporirli e dello zucchero, per addolcirli. Marcata attenzione viene posta alla sequenza delle operazioni messe in atto per realizzare la ricetta, figlia di un ben predeterminato schema logico: non più una serie di ingredienti da porre in pentola contemporaneamente per la cottura. 

Poco più tardi sarà il Platina, al secolo Bartolomeo Sacchi, umanista, letterato ed amico di Maestro Martino, a raccogliere e tradurre nel colto latino le ricette, favorendone una capillare diffusione tra le classi più colte di tutta Europa: il suo De honesta voluptate et valetudine, il primo libro a stampa di pratica culinaria, edito a Roma nel 1474, riceverà una positiva accoglienza un poco ovunque, in una società completamente rimodulata, dove le nuove regole di vita sono ispirate agli stilemi classici greci e latini, presi a paradigma di ogni conoscenza umana.







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