Polimorfismo sociale dell'alimentazione monastica nei secoli. Prima parte

Una ben distinta volontà di rifugiarsi dalle tentazioni del mondo, tramite severe e costanti privazioni, distingueva la vita degli anacoreti, prima in Oriente e successivamente in Occidente, sin dai primi secoli dell'età cristiana. Fuggendo dalla voluttà del cibo ed anche dalle sue più elaborate forme, veniva garantita la salvazione della propria anima, avvicinandosi il più possibile ad interpretare il messaggio di Cristo. Da un punto di vista alimentare la cultura della monofagia, il nutrirsi una sola volta al giorno unicamente di cibi secchi, tipica degli eremiti vissuti tra II e IV secolo ancora assai lontani dal disciplinare le loro scelte tramite una regola ben definita, pose le basi per quelle che sarebbero diventate, secoli dopo, le grandi regole monastiche medievali. 

Un primo passaggio dall'isolamento alla vita in comune avvenne in Egitto, nella regione della Tebaide, con Pacomio, attorno all'inizio IV secolo. Un più ampio concetto di comunione tra i monaci, ancor più rivoluzionario del riunirsi attorno ad un padre carismatico ma adesso esteso a tutti gli aspetti della vita, dalla preghiera alla condivisione dei pasti, rappresentò qualcosa di assolutamente nuovo per quei tempi. Mentre Pacomio redigeva la sua regola in Egitto, sul calare del secolo, nel 397, Agostino scriveva la propria, annoverandola come la più antica tra le regole mai scritte in Occidente. Volendo far apprezzare ai suoi sacerdoti i vantaggi della vita cenobitica, è proprio in questo contesto che si ravvede la nuova idea di convivio, un più stretto rapporto tra ritualità del pasto ed i profili prettamente liturgico-celebrativi. Dalla vita ascetica dei primi padri si passa ad una sorta di socializzazione diffusa del pasto, tramite una regolamentazione che istituzionalizza i comportamenti da tenere, dove i principi normativi che sottostanno alla vita collettiva cenobitica inquadrano il cibo non come mera materia, ma gli regalano una specifica ed inedita forma: cosa e come si mangia.

Equilibrio tra saggezza e spirito pratico costituiscono i tratti salienti della Regola stilata da Benedetto da Norcia dopo il 530 nel monastero di Montecassino, da lui fondato. L'aspetto innovativo della Regola è rappresentato dalla sua estrema organicità: essa configura una sorta di inedita societas, dove vita spirituale, pratica religiosa ed organizzazione della vita materiale vanno a braccetto. Si vennero così a creare le condizioni per la nascita degli ordinamenti delle comunità religiose maschili e femminili future. E' dal capitolo 35 che Benedetto riserva le sue attenzioni alla cucina e alla ritualità dell'alimentazione monastica: il prendersi cura del pranzo comune, il servizio di mensa, attraverso uno specifico riguardo nei confronti della gestione degli ambienti e degli utensili per la cottura dei cibi. Il cucinare, il convivio, si affianca alla valenza spirituale della liturgia divina:

Si lavino gli asciugatoi usati dai fratelli per le mani e i piedi. Tanto il monaco che termina il servizio di mensa, quanto quello che lo comincia, lavino i piedi a tutti. Il primo consegni puliti ed intatti al cellario tutti gli utensili di cui si è servito nel proprio turno.

Proseguendo con i capitoli 39, 40 e 43 della Regola benedettina si entra maggiormente nel dettaglio: ecco la descrizione della misura del cibo, delle bevande ed una spiegazione relativa alla puntualità nel recarsi in mensa per la consumazione del pasto. Il tratto saliente di questi precetti si ravvisa nell'estrema comprensione ed indulgenza per quanto concerne le esigenze materiali dei monaci, il cibo: una corretta e funzionale alimentazione garantisce in primis la tranquillità spirituale ma anche un adeguato rendimento nelle attività manuali. Uno specifico criterio, punto d'incontro tra la disciplina del digiuno monastico e le schiette esigenze pratiche (durate della luce, lavoro manuale, temperatura, ecc...), fissa il numero ed il ritmo dei pasti da somministrare. 

La Regola di Benedetto prevede la ripartizione dell'anno in quattro periodi specifici: il primo va da Pasqua a Pentecoste, elimina il digiuno e permette due pasti giornalieri, uno intorno a mezzogiorno (ora sesta) e l'altro poco prima del tramonto. Il secondo è compreso tra Pentecoste ed il 13 settembre, conferma il pasto dell'ora sesta ma sancisce il digiuno fino alle tre del pomeriggio (ora nona), il mercoledì ed il venerdì. Il terzo periodo intercorre tra il 13 settembre e la Quaresima e prevede un solo pasto all'ora nona, con l'esclusione delle domeniche e delle festività. Nel periodo di penitenza quaresimale è previsto un solo pasto ed il digiuno si prolunga fino all'ora del vespro. L'alimentazione del monaco benedettino è sì frugale, ma assai abbondante: ad ognuno spetta una libbra di pane giornaliera, quest'ultimo realizzato con farine mescolate all'orzo, mentre il pasto consiste di due portate di pietanze cotte, aggiungendo, se disponibili, legumi e frutta freschi. Le carni sono ovviamente escluse, consentendo però l'integrazione di pollame e pesce nella dieta. Consumatissime erano quelle tipologie di alimenti che si rifacevano alla tradizione popolare contadina, come minestre di legumi e cerali e creme semiliquide di varia natura. 

Benedetto concede all'abate di disporre di digiuni od orari diversificati del pasto nel caso si presenti una necessità specifica. Vera novità è la concessione della emina: rispetto alle regole monastiche precedenti era possibile consumare un quarto di litro di vino al giorno. Il mixtum, pane intinto nel vino, era consumato dai monaci dopo l'ufficio del mattino, mentre nei giorni di digiuno era possibile usufruire di supplementi minimali: un piatto di cipolle ed uova chiamato pietanza ed una ciotola di latte, denominata collatio, elargita dopo la lettura delle Collationes di Cassiano successive alla celebrazione del Vespro. I termini "colazione" e "pietanza" nascono quindi in questo contesto ed entrano successivamente nell'uso comune. 

La Regola di Benedetto, possente strumento normativo, mutò le rappresentazioni sociali del convivio, della vita sociale a tavola, distaccandosi nettamente dallo spinto ascetismo dei primi monaci: il cibo come simbolo di socievolezza si innalza così a rappresentare l'elemento fondamentale della coesione comunitaria.

Con la lunga fase di cristianizzazione europea realizzatasi nell'Alto Medioevo e con la movimentazione dei monaci verso l'Europa del nord, la Regola divenne esperienza comune degli abitanti del continente. Tra il IX ed il X secolo però, a causa di una perdurante decadenza istituzionale, il monachismo benedettino subì un duro colpo, in paesi come l'Inghilterra quasi scomparve. Proprio questo contesto favorì una sorta di ritorno alle origini: si avvertì l'esigenza di concepire una serie di riforme volte a ripristinare la centralità dei monasteri, allontanandoli dal potere feudale e ponendo nuovamente al centro la piena osservanza della regola benedettina. Nel 909 Guglielmo d'Aquitania realizzò la prima di queste riforme, edificando presso Cluny, nell'attuale dipartimento francese della Saona e Loira, una delle più influenti abbazie benedettine della cristianità altomedievale, scegliendo come primo abate Bernone di Borgogna. Centro monastico indipendente, l'abbazia di Cluny si strutturò attorno a particolari regolamentazioni interne che le garantirono una certa indipendenza dalle ingerenze secolari ed ecclesiastiche, mentre la neonata Congregazione cluniacense fu destinata a condizionare, per più di un secolo, la storia della Chiesa e della società intera. 

A differenza di Cluny la maggior parte dei monasteri facenti parte della Congregazione cluniacense non aveva a capo un abate eletto, mentre l'abbazia capostipite dell'ordine si caratterizzava per una sostanziale mitigazione della regola benedettina riguardante l'alimentazione. Escludendo in toto dalla dieta monastica gli alimenti carnei, si principiò però a proporre pietanze maggiormente ricercate, prestando più attenzione alle fasi di elaborazione e cottura. Nel prandium giornaliero a disposizione dei monaci venivano serviti due piatti. Uno consisteva in una sorta di pappa di orzo e farina di avena bolliti, l'altro verteva su ortaggi ed erbe, come porri, carote, bulbi e cipolle, oppure pesce. In realtà lo stile alimentare cluniacense si caratterizzò per una certa sobrietà unicamente nelle sue fasi iniziali, assumendo assai velocemente una connotazione aristocratica. Lo storico Massimo Montanari riporta a tal proposito una vicenda riferita a Pier Damiani in visita a Cluny: il teologo ravennate inorridì per la sontuosità dei pasti, decisamente poco consona al contesto; per tutta risposta l'abate Ugo lo invitò "a provare lui per un po' di giorni a sostenere la fatica di espletare i quotidiani obblighi liturgici".




 



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