Le strutture del gusto in cucina: dalle invasioni barbariche alla Firenze medicea delle feste per San Lorenzo

E' possibile descrivere circa 1500 anni di storia dell'alimentazione, esporre velocemente il discorso alimentare, come si è evoluto, partendo dalle invasioni barbariche per arrivare allo sfarzo, all’ostentazione ed al classismo di epoca rinascimentale, con un'analisi degli elementi antropologici coevi alle varie epoche? Compito arduo ma fattibile. L'uomo e la sua cultura si determinano tramite la secolare, fedele compagna: la cucina. La corte, la borghesia cittadina, il popolo delle campagne e ciò che fu fondamentale per lo sviluppo di una primissima cultura alimentare comune europea - l’intervento e la regolamentazione della chiesa sul cibo - sono alla base del perenne dibattito di storici ed antropologi alimentari.

In piena epoca medicea come venivano strutturati i banchetti per le feste di San Lorenzo? Che tipologia di documentazione abbiamo a disposizione, proveniente direttamente dall'archivio del Capitolo di San Lorenzo?

Per capire l’evolversi del discorso alimentare nei secoli ed i suoi aspetti sociologici è funzionale esporre i concetti di "scambio" e di "interconnessione culturale", tanto cari a Massimo Montanari. Pensiamoci in un'osteria dell'entroterra, davanti ad un banale piatto di spaghetti al sugo di pomodoro. Vengono in mente: tradizione, italianità, territorialità, specificità storica e geografica. Un qualcosa di ben definito nel tempo e nello spazio, con un punto di inizio determinato, culturalmente identitario di uno specifico popolo. E magari un qualcosa che si perde anche nei secoli. Niente di più falso. L’origine degli spaghetti e del pomodoro va ricercata nel dono portatoci da altre culture, che si incontrarono e si amalgamarono durante i secoli, in questo caso nel territorio geografico italiano. Tra il IX e l’XI secolo, precedendo il periodo normanno-svevo, il dominio islamico in Sicilia ci portò in regalo la cultura della pasta secca filiforme (nelle zone del nord Italia era presente unicamente la pasta fresca ripiena o le lasagne condite con burro e formaggio). Pasta secca che, solo nel 1600, con l’avvio dei pastifici napoletani, darà il la alla nostra assimilazione culturale definitiva; mentre per quanto concerne il pomodoro, tra i molti prodotti importati dall’America dopo il 1492, esso ebbe non pochi problemi ad entrare nei gusti delle corti europee, con degli esiti alle volte comici. Per almeno due secoli e mezzo venne unicamente utilizzato per adornare i tavoli dei banchetti o alle volte era un semplice elemento di accompagnamento alla vivanda principale: tagliato e servito fritto. Solo nel secondo 1800 si comprese che dal pomodoro potevamo ricavare un sugo che poteva abbinarsi piacevolmente alla pasta, già al centro dei consumi tra le popolazioni. 

Capirete che, con questa premessa, il concetto di tradizione di cui vi ho parlato, cade miseramente. Lo scambio e l’interconnessione tra culture sono al centro della nostra identità, determinano ciò che noi, oggi, chiamiamo “tradizione”. Scambio ed interconnessione agiranno nei secoli sugli usi e sui costumi di cucina precedenti, trasversalmente ai vari ceti sociali, andando ad interessare ovviamente anche ciò che sarà scritto, che si tratti di un ricettario o di un trattato agronomico o dietetico.

Facciamo quindi un excursus storico di questi scambi ed intrecci. Punto di partenza del tutto deve essere il 166, l’inizio delle invasioni barbariche. Nell’Europa geografica erano presenti, nei secoli precedenti, da una parte la civiltà greco-romana, con un sistema di produzione basato sull'arboricoltura, la cerealicoltura e la stanzialità, assieme ad un paradigma alimentare strutturato sulla triade grano-vino-olivo, dall'altra i popoli nordici dell'Europa continentale, nomadi, che prediligevano un'economia di tipo silvo-pastorale, incentrata sullo sfruttamento dei boschi e degli spazi incolti, con la caccia e l'allevamento brado degli animali coevi a questa attività. I due macro-modelli, inizialmente distinti ed estranei, verranno in contatto proprio con le invasioni barbariche ed ancor più a partire dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente e la nascita dei regni romano-germanici presenti tra V e VI secolo, scontrandosi ed incontrandosi in un continuo fluire di scambi. 

Pensiamo agli altri apporti, ai fatti storici: l’espansione degli Arabi sulle coste mediterranee dal VII secolo, il nascente Stato della Chiesa, che inizia ad avere progressivamente anche un'influenza temporale ed un ruolo di continuità con la cultura latina, l’Impero carolingio presente fino al termine del IX secolo, la sua disgregazione e la nascita, Francia a parte, del Sacro Romano Impero, progetto politico considerato come continuazione dell’Impero Romano d’Occidente che fu, e quindi di quella cultura, ma che presto si frammenterà in feudi, dando il via anche alla creazione dei primi stati nazionali, il Regno di Sicilia al Sud. In questo contesto, dal X secolo, parallelamente a tutto ciò, si insinua il modello dell’accastellamento feudale, nato per difendersi dalle seconde invasioni (saracene, ungare e normanne). Ed è proprio da questa contestualità che partirà una marcata diversificazione – anche a livello di pratiche alimentari, di cibi utilizzati tra le classi sociali, con tutta la simbologia sottesa – tra chi abitava in campagna o nel castello e successivamente nelle città. 

Il consumo smodato di pietanze carnee rappresenterà sempre più il must delle classi agiate. Con l’affinamento del gusto che ci porta verso il tardo medioevo e gli albori del Rinascimento, si passerà dal mangiare sovente grossi quantitativi di animali di bosco di grossa taglia, spesso crudi, - pensiamo a Carlo Magno ed alla sua gotta - al consumare carne bovina, ed ancor più il volatile (poiché il volatile "vola" è considerato simbolicamente più signorile, nobile, adatto al consumo di corte), magari tremendamente impreziosito con un mix di spezie, cannella e zafferano su tutte, anch’esse simbolo del potere signorile, poiché costose e poco accessibili alla massa. Tra parentesi: leviamoci dal capo che l' eccessivo uso di spezie per ogni tipo di pietanza, in questo caso carne, fosse magari correlato alla scarsa freschezza di quest’ultima: niente di più falso! A corte si mangiava tanta carne lavorata poche ore prima. Questo utilizzo, considerato esorbitante secondo i parametri dell’uomo contemporaneo, è in realtà collegato al concetto di “struttura del gusto”, come soleva dire l’antropologo alimentare e storico Jean Louis Flandrin: cioè la cucina, a corte, veniva “pensata” in quel modo, erano totalmente diversi i parametri gustativi rispetto all’oggi, ciò si rifletteva anche sulla preparazione spicciola delle ricette.

Dall’altra parte erano presenti gli usi ed i costumi alimentari del popolo delle campagne, dei plebei: ecco i legumi, le verdure, certo non la frutta, consumata dai ricchi. Alle volte si consumava anche carne suina, se ti andava bene. Erano invece assenti nell’alimentazione contadina gli animali di grossa stazza, poiché servivano, se li possedevi, per il lavoro nei campi. Ancora, rigorosamente, pane scuro di grani inferiori per i poveri (pensiamo alla panificazione con orzo, spelta, avena, segale, miglio, sorgo e panico), mentre il pane bianco di frumento sarà sempre più prerogativa delle classi agiate: due colori, il pane nero da una parte ed il bianco dall’altra, assunti a simboli assoluti di quella sorta di ferocia classista legata al consumo di cibo che caratterizzerà tutto il periodo rinascimentale (si doveva mangiare “secondo le proprie inclinazioni naturali”). 

In tutto questo ambaradan, in questo contesto variegato, seppur presenti grosse differenze culturali tra i ceti delle singole popolazioni, il Cristianesimo, che aveva fatto suo il modello alimentare romano nell’alto Medioevo, attecchirà sempre più a nord Europa. Grazie alle regolamentazioni della chiesa sul cibo - pensiamo al punto di partenza della regola benedettina del VI secolo, che imponeva i giorni di magro ed i giorni di grasso. Più avanti si arriverà, con varie declinazioni, a circa 150 giorni annuali di penitenza ed astensione dal consumo carneo - il processo di cristianizzazione fungerà da trait d'union per la definizione di una primissima cultura alimentare europea, che uniformerà sempre più usanze e pratiche di cucina. Regni, Imperi e Stati che nascono e muoiono nel giro di mille anni, rivelatori di due modelli alimentari ben distinti, quello nordico e quello mediterraneo in coabitazione grazie alla Regola.

Saltiamo a piè pari il 1000-1100 europeo, nel quale assistiamo ad un repentino aumento della popolazione e all'evoluzione conseguente delle tecniche della cerealicoltura e allevamento (si comprende che il frumento è più produttivo e adattabile anche a climi non particolarmente favorevoli, a differenza dei grani inferiori che rimarranno prerogativa delle classi inferiori), saltiamo il XIII secolo, dove il consolidamento delle monarchie nazionali portò a vivere un periodo di grande sviluppo economico, sociale e culturale, saltiamo anche i tragici flussi pandemici e le carestie del 1300. Si arriva direttamente al cuore del primissimo Rinascimento ed a quel senso del gusto, a quella simbologia del cibo legata all’aspetto sociale, fortemente classista di quel periodo, che, anche da un punto di vista della trattatistica, si struttura grazie alla presenza, da circa un secolo, del primo ricettario di cucina di epoca cristiana: quel "Liber de coquina", realizzato nello sfarzo della corte angioina a Napoli, che rappresenta il punto di partenza del tutto, primo tassello del discorso gastronomico messo per scritto.

Partiamo quindi con un'analisi dei documenti che abbiamo a disposizione. Due nello specifico, che mi interessano per una indagine prettamente alimentare, sono relativi ai banchetti realizzati per le feste di San Lorenzo, organizzati in onore ai Medici, rispettivamente nel 1384 e nel 1487. Nel 1384 eravamo al tempo della presenza della famiglia Albizi su Firenze, i Medici erano già attivi protagonisti della vita pubblica ed economica della città ben prima della loro grande ascesa con Cosimo. Il banchetto fu allestito in onore di Giovanni di Bicci de’ Medici, padre di Cosimo il Vecchio, primo Signore di Firenze, nonno del Magnifico.

La vigilia di San Lorenzo ed il giorno stesso della festa venivano rallegrati all’interno della comunità religiosa anche da pranzi e cene connotati da una sorta di menu tradizionale: per il pranzo della vigilia si cucina del pesce, e si acquistavano, zucchine, cipolle, uova e zafferano per fare la minestra a tutto il capitolo. Per il pranzo e la cena della festa si preparavano arrosti di vario tipo, una crostata a base di carne salata, uova e strutto, e ricottine dolci, chiamate felciate, che venivano trattenute da delle ampie foglie”.

In questa breve descrizione è presente sostanzialmente tutto ciò che si mangiava in quel periodo, trasversalmente alle classi sociali: il pesce, qui consumato in una festa, simbolo per eccellenza dei giorni di magro, al tempo certamente proveniente da fiume o da lago, locale. Solo nel tardo Rinascimento cominciò il consumo del pesce di mare, grazie a tecniche di trasporto in ghiacciaie che potevano essere funzionali a mantenere sano il prodotto durante i tragitti verso le città dell’entroterra; ecco le verdure: zucchine, cipolle, con una valenza molto popolare, come del resto le uova; il tocco ricercato della spezia, dello zafferano, prerogativa delle classi abbienti e certamente a disposizione anche dei cuochi che prestavano servizio presso gli uomini di chiesa (tutti i cibi erano “gialli” al tempo, un profluvio esorbitante di zafferano, ovunque e non solo zafferano). Il documento ci parla di arrosti di carne, alimento e tipo di cottura simbolo per eccellenza dell’opulenza e delle disponibilità di ricchezze, che si contrapponeva al bollito, il massimo a cui potevano arrivare i plebei: poca carne, di bassa qualità, dalla quale bisognava recuperare l’acqua di cottura per molte altre preparazioni (notare la simbologia: il grasso degli arrosti che cola sul fuoco e che viene perso in cottura, versus il riuso continuo di ciò che rimane dopo la cottura dei bolliti). Nel testo relativo alla festa del 1384 si cita anche una “crostata con carne salata, uova e strutto”, ma per me è più una torta ripiena, alimento tipico del periodo medievale e rinascimentale, della corte. Di essa, grandemente farcita con molte tipologie di carne e molto alta, veniva consumato esclusivamente il ripieno: a differenza di oggi la pasta che formava la torta serviva spesso unicamente come recipiente per la cottura e successivamente scartata.

Il secondo documento sui banchetti per la Festa di San Lorenzo è del 1487, in piena epoca medicea, con il Magnifico Signore di Firenze.

Vengono acquistati 15 poponi, 16 fiaschi di Trebbiano, frutta, pesci d’Arno, presenti maccheroni con parmigiano, il tutto allestito per il capitolo e gli aiutanti della festa”.

Abbiamo il popone, molto popolare e fruibile nella stagione estiva, abbiamo molti fiaschi di Trebbiano, come ci attestano i documenti, gelosamente conservati presso l’ampia cantina presente in Via Larga; una chiosa: all’epoca si consumavano grossissimi quantitativi di vino per dissetarsi, spesso annacquato, poiché l’acqua pura, prelevata dai pozzi, era sovente torbida e non salubre. Quindi il mescerla con il vino le garantiva un certo tasso di antisetticità. Abbiamo la frutta, assieme al consumo carneo altro simbolo del classismo alimentare dei ricchi. Nel documento relativo alla festa del 1487 troviamo il pesce d’Arno (come ho accennato prima, in questo periodo veniva consumato quasi esclusivamente pesce di fiume). Ecco i maccheroni con il parmigiano grattato, quest'ultimo altro must del periodo, utilizzato come unico condimento per la pasta. Ed attenzione, a quel tempo per maccheroni si intendevano svariati formati di pasta, alle volte addirittura gnocchi di farina (che saranno di patata dalla scoperta delle Americhe). Nel tardo Trecento il maccherone lo si correlava anche ad una sorta di “pasta distesa sottilmente in falde”, l’equivalente di piccole lasagne.

Vengono acquistate ben 71 libbre (32 kg) di vitella per farne dono a otto persone, primo fra tutti Lorenzo De’ Medici (solo per lui 18 libbre, 8 kg), il doppio elargito al Signore di Firenze rispetto agli altri cittadini di rilievo”.

Notate lo smodato quantitativo di carne donata al Magnifico, per onorarlo. Ciò, in primis, rientra nella prassi, nella cultura alimentare del tempo, come ho accennato prima. L'altro aspetto interessante che possiamo analizzare dai documenti dell’epoca è che con Cosimo - ed ancor più con Lorenzo - si riuscì, durante la loro Signoria, a garantire una sorta di auto produzione alimentare, che fece diminuire grandemente le importazioni. Tutti i beni alimentari che servivano al rifornimento cittadino erano garantiti dalle attente e produttive pratiche agronomiche messe in atto nell’intorno fiorentino. Erano presenti inoltre un cospicuo e continuo rinfoltimento di volatili nei boschi (fagiani e pavoni in primis) e l'allevamento di numerose mandrie, come ci testimonia il Verino nel De Illustratione Urbis Florentiae.

Le strutture del gusto in cucina: dalle invasioni barbariche alla Firenze medicea delle feste per San Lorenzo




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