Tra artigianalità e produzione industriale: l'anno zero dell'essiccazione artificiale della pasta

A Napoli è presente un vecchio detto che affonda le sue radici nella secolare cultura cittadina: "I maccheroni si fanno col scirocco e si asciugano con la tramontana".

Inizio XIX secolo. I numerosi pastifici di stampo artigianale del litorale partenopeo, assai produttivi in quelle zone già da alcuni anni, potevano sfruttare ampiamente l'estrema generosità del clima, approfittare, durante il processo lavorativo, del continuo alternarsi tra il caldo umido dello scirocco ed il fresco asciutto della tramontana: nella realizzazione e nella successiva essiccazione naturale dei vari formati di pasta si concretizzava tutta la secolare magnificenza, incomparabile maestria del saper fare. Gli spazi dove poter stendere il prodotto da essiccare, una volta estruso, erano numerosi e piuttosto ampi, luoghi che potevano tranquillamente sopportare i cospicui aumenti di stock da esporre, derivanti in primis dalle migliorie tecnologiche apportate alle macchine negli anni immediatamente precedenti. Il tempo necessario per realizzare una ottimale essiccazione naturale della pasta generalmente non superava i 10 giorni.

Altra storia era invece produrre la pasta nelle regioni del nord Italia. In un contesto segnato dal repentino passaggio da un tipo di produzione artigianale ad uno semi-industriale, divenne cruciale il miglioramento della fase di essiccazione, certamente non agevolata dal clima di quelle latitudini. Un deciso aumento della produzione di pasta, imposto da una sempre più crescente domanda, implicava una riduzione drastica dei tempi di essiccazione: fino a quel momento si poteva arrivare addirittura all'esposizione dei prodotti per un mese intero, col rischio di ritrovarsi un accumulo sostanzioso di stock nella parte terminale della catena di lavorazione della pasta. Si poteva realizzare un tragico binomio: il costo eccessivo degli edifici adibiti all'essiccazione naturale del prodotto da una parte ed il pericolo della comparsa di muffe e fermentazioni dovute alla lunga immobilizzazione dall'altra indussero a cercare altre vie per poter sostenere le nuove prospettive di sviluppo.

Si cominciò quindi a pensare a dei metodi di essiccazione artificiale del prodotto. I primissimi macchinari meccanici furono probabilmente messi a punto in Friuli nella prima metà del XIX secolo. Le "giostre", enormi gabbie rotanti lignee, avevano dimensioni veramente esorbitanti: alte anche 4 metri, con un diametro di 5/6, al loro interno erano presenti delle scale alle quali venivano fissati i vassoi di essiccazione, a griglia per la pasta corta, mentre delle canne assicuravano l'esposizione dei formati lunghi. Gli ambienti erano ampiamente areati e riscaldati in base alla stagione, mentre il movimento della giostra era garantito da un asse centrale verticale, fissato alle due estremità, in basso ed in alto. Questo rudimentale marchingegno compiva 6/8 giri al minuto e riduceva così al minimo l'effetto della forza centrifuga. Ai suoi lati erano presenti delle stufe che facilitavano il processo di essiccazione, nonché vari scaffali, disposti su più colonne, dove venivano momentaneamente posti i vassoi con la pasta da trattare.

Giostra di essiccazione della pasta

Si capì però ben presto che il metodo di essiccazione a giostra non garantiva la funzionalità del processo, poiché la pasta situata alle estremità della macchina asciugava ovviamente molto più velocemente rispetto a quella posta verso l'interno. Nell'ultimo quarto del XIX secolo si impose così l'essiccatoio termo-meccanico, che combinava l'azione del ventilatore e quella del calorifero: secondo uno studio condotto dall'ingegner Renato Rovetta, presso l'Ufficio Brevetti di Roma, il primo progetto realizzato in Italia per una apparecchiatura basata su questo principio risalirebbe al 1875.

1875-1904: l'era dei brevetti, per l'esattezza 20, tutti depositati da imprese di costruzione e da produttori di pasta per macchine ed attrezzature che potevano sfruttare l'essiccazione artificiale, combinando la circolazione dell'aria con il riscaldamento. Sempre Rovetta ci testimonia la presenza, in un pastificio abruzzese del 1887, di un rudimentale marchingegno: un sistema di riscaldamento ad aria calda era posto ad una estremità della macchina, all'altro capo si trovava un ventilatore aspirante, nel mezzo era invece allocato un cassone forato contenente i vassoi di pasta estrusa, all'interno del quale circolava appunto l'aria. Fu un non ancora noto imprenditore pastaio, Filippo de Cecco, a mettere a punto questa specifica metodologia. Si manifestarono però ancora una volta delle problematiche, nonostante il tentativo di proporre un nuovo metodo di essiccazione, sicuramente assai più funzionale rispetto a quello delle giostre: seppur il costo di gestione dell'impianto fosse assai contenuto, con investimenti iniziali meno onerosi, la pasta spesso asciugava in maniera disuniforme, essendo fissa la fonte di calore. Per rimediare al terribile inconveniente si pensò bene di inserire diversi ripiani estraibili all'interno del cassone della macchina, che potevano essere movimentati a più riprese durante la procedura, garantendo quindi continui e veloci cambi di posizione dei vassoi in base al grado di essiccazione raggiunto dalla pasta.

Un grande balzo in avanti fu compiuto pochi anni dopo, nel 1898, quando l'industriale milanese Vitaliano Tommasini depositò il brevetto che prendeva il suo nome: il procedimento "Tommasini" prevedeva la presenza dei classici cassoni con i vassoi amovibili, ma in questo caso venne aggiunto un getto di aria calda che procedeva dall'alto verso il basso, penetrando da una presa d'aria situata nella parte sommitale e proseguendo verso un'uscita posta sul fondo. Il flusso era sostenuto da un aspiratore allocato in uno dei due lati. In questo modo si otteneva una maggiore uniformità nella distribuzione del calore. Tomassini creò la sua macchina tentando di ricreare le condizioni tipiche dell'essiccazione naturale "alla napoletana": incartamento-rinvenimento-essiccazione definitiva. La primissima versione di questa macchina garantiva in modo compiuto la prima fase di incartamento, con l'immissione forzata di aria a circa 28 gradi, una temperatura assai simile a quella registrata nei mesi estivi durante i processi di essiccazione naturale dei pastifici del Golfo di Napoli. Successivamente Tommassini continuò a perfezionare la sua creatura, con due brevetti specifici nel 1900 e nel 1901, che assicurarono un sistema di camere di essiccazione definitiva.

Essiccatoio Tommasini

Siamo giunti all'inizio della nuova era, nella quale abbondano numerosi progetti di nuove macchine, assieme ai brevetti, con lo scopo di rendere maggiormente funzionali le tecniche di produzione della pasta: il mercato pretende grandi numeri, qualità e rapidità. Sarà proprio l'ingegner Rovetta, sul finire degli anni '20, a depositare un brevetto di un essiccatoio i cui parametri potevano essere regolati nella loro totalità: velocità della ventilazione, igrometria e temperatura dell'aria. Si realizzò così un primo passo verso la definizione della cella di essiccazione universale, "efficiente per ognuna delle operazioni interessate, dall'incartamento al rinvenimento, in tutte le stagioni ed in qualsiasi luogo, dal polo all'equatore".

Ma questa è un'altra storia...



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